Eravamo nel 2008: il secondo governo di Romano Prodi, dopo un anno e mezzo di voti sofferti, aggrappati alla presenza in aula di ottuagenari senatori a vita, era arrivato al capolinea, impallinato da Clemente Mastella all’epoca ministro della Giustizia, finito nei registri degli indagati per un’inchiesta su ipotizzati scambi di favori tra alte cariche della regione Campania. Anche Walter Veltroni, però, aveva contribuito a indebolire l’esecutivo, lanciando la sua candidatura ufficiale a premier con l’approssimarsi delle elezioni e dando vita ufficialmente al Pd.
Allora, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel tentativo di scongiurare il ritorno alle urne, seguì pedissequamente la prassi istituzionale affidando il mandato esplorativo alla seconda carica dello Stato, il presidente del Senato Franco Marini.
Obiettivo del costituendo esecutivo, indovinate un po’, la legge elettorale. Già allora, è bene ricordare, era in vigore il Porcellum tanto bistrattato, ma sempre difeso dai suoi ideatori: ed è sufficiente questo aspetto per comprendere le ragioni dell’aborto del governo Marini.
Nell’arco di alcune concitate notti, si tennero tra Quirinale e corridoi parlamentari incontri più o meno ufficiali, ma alla fine il centrodestra – incluso l’Udc di Casini – si mostrò compatto e risoluto nel puntare dritto verso il voto, forte dei sondaggi che lo vedevano avanti di parecchi punti sulla scalcagnata coalizione di centrosinistra.
Naturalmente, i resti delle forze che avevano appoggiato l’Unione di Prodi erano concordi nell’arrivare alla riscrittura della normativa elettorale, un po’ per prendere tempo, un po’ per modificare l’abominevole legge Calderoli.
Insomma, buoni propositi, ma vani, perché nel frattempo i rapporti di forza al Senato erano mutati e la bilancia dei numeri pendeva dalla parte di Berlusconi, Fini e Casini, i quali non vacillarono di fronte e negarono a Marini il sostegno per riformare le regole per l’elezione dei parlamentari. Addirittura, Veltroni arrivò a prospettare una soluzione a tempo per il presidente del Senato, dichiarando il proprio favore per un “governo di tre mesi”, evidentemente convinto di giocarsi le proprie chance in campagna elettorale.
A distanza di poche ore dall’invito del Quirinale, infine, Franco Marini si arrese, rimettendo il mandato nelle mani di Napolitano “con molto rammarico per l’impossibilità di raggiungere l’obiettivo che mi era stato assegnato, cioè di trovare una maggioranza per modificare in pochi mesi la legge elettorale”.
Fu l’ultima volta che il nome di Franco Marini finì su tutte le prime pagine. Oggi, lo ritroviamo candidato di punta per il Quirinale, dopo qualche anno trascorso sulle retrovie. Il suo nome, però, pare condannato a dividere, da possibile presidente della Repubblica ancor più che da premier. Oggi i giochi sono cambiati – Berlusconi lo appoggia, mentre è la sinistra a trovarsi spaccata – ma l’esito potrebbe essere il medesimo.
Vai allo speciale Quirinale
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento