Il commercio transnazionale di armi convenzionali fattura all’anno un giro d’affari pari a 70 miliardi di dollari, di cui il 30% rimane rigorosamente in mano agli Stati Uniti. L’Arms trade treaty, oltre ad essere finalizzato alla regolamentazione controllata di un simile mercato, è preposto anche alla definizione di standard idonei per il trasferimento di ogni tipologia di arma convenzionale, leggere e pesante, da nazione a nazione. L’atto inoltre inibisce fermamente l’esportazione di tutte le armi che potrebbero essere adoperate a fini bellici contro i civili, in violazione di un embargo, in azioni terroristiche, operazioni di genocidio o di crimine organizzato. L’epocale approvazione, tuttavia, non è stata completamente indolore. Già giovedì scorso, infatti, la votazione era stata fermata da Iran, Siria e Corea del Nord (si ricorda che Iran e Corea del Nord ancora sottostanno all’embargo Onu per i rispettivi programmi nucleari) i quali avevano avanzato obiezioni alla trattativa, così franando le basi per un consenso unilaterale.
L’ambasciatore britannico all’Onu, Mark Lyall Grant, per superare l’impasse ha fatto recapitare direttamente al segretario generale Ban Ki-moonuna missiva in cui si chiedeva specificatamente di stabilire la data certa per il voto dell’Assemblea, a nome di nazioni quali Australia, Argentina, Giappone, Nigeria, Kenya e Norvegia. Lo scorso 18 marzo una comitiva composta da 120 Paesi, con alla guida il Messico, ha poi reso nota una dichiarazione congiunta in cui si attestava che “la stragrande maggioranza degli Stati membri” esprimeva condivisione “sulla necessità ed urgenza di adottare un trattato sulle armi”. L’atto dichiarativo comprendeva tra i firmatari anche Paesi tradizionalmente avvezzi alla produzione di armi, tra cui Gran Bretagna e Germania, non contando invece all’appello gli altri quattro colossi dell’esportazione: Stati Uniti, Russia, Cina e Francia.
A fronte di questa evidenza, rimane assodato il fatto che, in vista dell’approvazione definitiva dell’atto, vede quale indiscusso protagonista, per peso e rilevanza, il sì di favore pronunciato ieri proprio dagli USA. Gli Stati Uniti restano il Paese produttore numero uno al mondo per quanto riguarda il bacino armi, tuttavia in seguito al rinnovamento del mandato presidenziale di Barack Obama prosegue felicemente la politica di inversione di rotta promossa già durante il primo incarico del 2008. Il segretario di Stato statunitense, John Kerry, ha auspicato l’avvento del trattato con parole pronostiche: “Saremo i primi a firmarlo”. Per questa dichiarazione, l’influente lobby statunitense delle armi Nra, vicina al partito repubblicano e ferma nel tentativo di ostruire l’approvazione della ratifica della convenzione da parte del Senato di Washington, ha attaccato duramente Kerry: “Il trattato viola il secondo emendamento della Costituzione americana che sancisce il diritto dei cittadini di detenere e portare armi”.
In aggiunta all’amministrazione Obama ed allo stesso Onu, anche l’American bar association, l’albo professionale che include più di 400mila avvocati americani, si è esposta a sfavore della Nra. L’ostacolo, in realtà, più grande alla corretta applicazione dell’atto regolamentativo rimane la lentezza burocratica che scandisce i tempi dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, troppo spesso in prima linea per combattere battaglie dalla risonanza più simbolica che effettiva. L’Arms trade treaty accettato ieri dovrà infatti venire ratificato da ogni singolo Paese a partire dal mese di giugno, entrando ufficialmente in vigore solo in seguito alla cinquantesima conferma, che secondo gli esperti non dovrebbe arrivare prima di un paio d’anni. Al di là dei tempi canonici di attesa, l’auspico che si avanza è dunque quello che spera nella piena operatività del trattato, scongiurando l’esempio portato dal ‘gemello’ Comprehensive test ban, l’accordo internazionale proposto all’interdizione dei test nucleari, il quale nonostante l’approvazione dell’Assemblea generale nell’oramai lontano 10 settembre 1996, non risulta ancora vigente.
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