Ab-uso. Uso distorto. La radice latina del termine aiuta a comprendere il significato di un principio fondamentale che caratterizza il nostro ordinamento. Nessuna norma lo qualifica espressamente, per lo meno a caratteri generali. Lo si può piuttosto ricavare dalla tutela di specifiche categorie di diritti soggettivi, quelli reali innanzitutto da cui la giurisprudenza ha elaborato una prima definizione .In base a tali pronunce, infatti, l’abuso si sarebbe verificato quando un diritto attribuito ad un soggetto viene utilizzato per finalità diverse rispetto alla funzione economico-sociale prescritta dall’ordinamento. I giudici hanno poi esteso il divieto di abuso del diritto all’area dei diritti di credito in particolare a tutela della clausola generale di buona fede contrattuale ex art.1175 c.c.
Dunque, chi si serve di un proprio diritto in modo contrario agli scopi etici e sociali per cui è stato inserito nel nostro ordinamento, abuserà del medesimo. Si tratta tuttavia di un concetto dai contorni vaghi, poco precisi n quanto radicato a concetti in continua trasformazione, gli stessi scopi legislativi spesso sono molteplici o impliciti.
In questo senso l’abuso del diritto richiama una particolare fattispecie generale tipica del settore tributario,l’elusione fiscale la quale individua un comportamento extra legem del singolo contribuente, il quale , per evitare di versare i tributi dovuti, non andrà a violare una precisa ed espressa norma dell’ordinamento, quanto piuttosto ad aggirare l’obbligo impositivo. La sua azione sarà garantita da una legittimità solo formale, utilizzerà quelle carenze, quei vuoti che permeano l’ordinamento italiano a sua vantaggio evitando alla radice il sorgere dell’obbligazione tributaria. Di fatto, dunque , non viene violata nessuna norma. “L’antielusione” è piuttosto un principio che va a formare l’ordinamento ed i cui effetti vengono precisati chiaramente solo nell’art. 37-bis del dpr 600/1973 ovverosia l’inopponibilità all’amministrazione finanziaria di tutti quegli atti realizzati al solo scopo di aggirare obblighi tributari ed ottenere vantaggi o riduzioni di imposte altrimenti insussistenti.
Qualche somiglianza con il concetto analizzato in precedenza? Ebbene sì, e molte. La stessa Cassazione lo ha riconosciuto in altre pronunce a Sezioni Unite (Cass. Civ. SS.UU. 20398/2005, 22932 e 21221/2006).
L’art.1 , lett. f) del d. lgs 74/2000, “Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto”, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n.205, stabilisce che per “imposta evasa” si deve intendere la differenza tra l’imposta effettivamente dovuta e quella indicata nella dichiarazione, ovvero l’intera imposta dovuta, in caso di omessa dichiarazione. Il legislatore definisce , dunque, chiaramente il concetto di evasione inserendola come premessa alla disciplina delle successive fattispecie di reato ed identificandola con il comportamento del contribuente che viola un’espressa e precisa norma, come può essere l’art. 2 o 3 del decreto medesimo. La scelta del soggetto in questione è pertanto palesemente contra legem, realizza un vero e proprio illecito fenomeno differente rispetto all’elusione ed al generale principio di divieto di abuso del diritto, sempre che si voglia restare aderenti alla nozione sopra esposta .
La teoria in commento pone altresì una questione di fondamentale importanza in ordine al principio di legalità, imprescindibile in campo penale così come in tutto l’ordinamento. Risulterebbe contrario al dettato costituzionale, infatti, estendere il divieto di abuso del diritto, principio non definito espressamente dalla legge, fino a ricomprendere ipotesi di evasione e dunque persino reati penali per i quali non si può prescindere da una dettagliata ed espressa fattispecie. Non per niente nel diritto penale non c’è spazio per l’analogia.
A mio parere, pertanto, l’evasione non può rientrare nel concetto di abuso del diritto, né può costituire una diramazione del medesimo. Rappresenta piuttosto un’estensione del concetto di violazione.
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