La
Corte di Cassazione, con la recente
sentenza n. 1693 del 24.1.2013 ha affermato un principio di diritto piuttosto rilevante nell’ambito del diritto del lavoro. Nello specifico ha attestato che, in caso di
licenziamento disciplinare per giusta causa, le infrazioni devono essere contestate dal datore di lavoro
nell’immediatezza della loro commissione.
Il caso di specie ha visto un lavoratore che si è presentato, per oltre due mesi, in ritardo sul luogo di lavoro, ritenendosi demansionato. Il Tribunale di Roma, nel primo grado di giudizio, ha a questi riconosciuto il danno liquidando però soltanto un indennizzo. La Corte di appello, invero, ne ha disposto anche la reintegra.
È arrivata da ultimo la Cassazione Civile statuendo, nella sentenza 1693/2013, che “il tempo trascorso tra l’intimazione del licenziamento disciplinare e l’accertamento del fatto contestato al lavoratore può indicare l’assenza di un requisito della fattispecie prevista dall’articolo 2119 c.c. (incompatibilità del fatto contestato con la prosecuzione del rapporto di lavoro), in quanto il ritardo nella contestazione può indicare la mancanza di interesse all’esercizio del diritto potestativo di licenziare; sotto un secondo profilo, la tempestività della contestazione permette al lavoratore un più preciso ricordo dei fatti e gli consente di predisporre una più efficace difesa in relazione agli addebiti contestati: con la conseguenza che la mancanza di un tempestiva contestazione può tradursi in una violazione delle garanzie procedimentali fissate dalla legge 300 del 1970, articolo 7”.
La mancata contestazione è stata, dunque, considerata dalla Suprema Corte, come un “comportamento tollerato”. Si pensi, infatti, che il succitato articolo 7 dello statuto dei lavoratori prevede esplicitamente che: “il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l’addebito e senza averlo sentito a sua difesa”.
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