In queste ore, echeggia ancora con una certa insistenza come il divieto di assumere cariche elettive per i condannati in via definitiva sia una tra le ratio fondative e soprattutto più urgenti inserite nel disegno di legge. Nulla di più impreciso.
Già, perché con l’approvazione di ieri in Senato, la larghissima maggioranza ha dato il suo assenso, senza sbraitare troppo, a una delega all’esecutivo per legiferare sull’incandidabilità entro un anno. Sì, un anno.
Termine sorprendente, data l’enfasi con cui era stato annunciato questo punto delle misure anticorruzione. Non a caso, è già iniziato il pressing sul governo, affinché approvi il testo sullo stop ai condannati non oltre un mese dopo l’approvazione definitiva del ddl. Prime rassicurazioni, in questo senso, sarebbero già arrivate dal ministro della Giustizia Paola Severino, anche se in tempi così stretti la certezza di vedere la norma in vigore alle elezioni politiche di marzo di fatto non c’è.
Intanto, salta all’occhio come, sul carro dei giustizialisti, sia salito nelle ultime ore anche quel Gaetano Pecorella che, non proprio secoli fa, difendeva il lodo Alfano di fronte alla Consulta, sostenendo la tesi di un premier da intedersi giuridicamente “primus super pares“. Anche lui, oggi chiede con forza che la legge entri in vigore in tempo per la prossima tornata.
Meno scandalizzato, invece, il compagno di partito e collega Maurizio Paniz, passato alla storia per un epico speech alla Camera dei deputati, in difesa di Silvio Berlusconi e della sincera convinzione riguardo Karima el-Mahroug, al secolo Ruby Rubacuori, ritenuta a tutti gli effetti nipote dell’ex presidente egiziano Hosni Mubarak. Il buon Paniz non si è risparmiato neanche questa volta, arrivando a riconoscere come 30 condannati su quasi mille parlamentari valgono il 3%, dunque tutto sommato una quota tollerabile.
Al di là delle dichiarazioni più o meno peregrine, comunque, lo scenario attuale, garanzie di vedere la legge già in applicazione per le prossime elezioni politiche non ce ne sono, per quanto il governo possa – e voglia – darsi da fare. Che dire, poi, agli inguaribili ottimisti addirittura fiduciosi in un debutto dell’incandidabilità in chiave “local” alle imminenti elezioni regionali straordinarie: pare non esserci altra via che rassegnarsi, ancora una volta.
A ben vedere, solo per amor di coerenza il governo farebbe meglio a dare subito un’accelerata. Non è passato poi tanto dagli scandali per le ruberie di denaro pubblico nelle Regioni, tra l’opulenza d’arraffo di Francone Fiorito o la finanza allegra della giunta Lombardo. Cataclismi che hanno fatto traballare l’establishment fin dalle sue stesse fondamenta.
Come unica via d’uscita, il governo tecnico aveva quindi lanciato l’ennesimo salvagente alla classe politica: approvare, e subito, una norma improntata alla legalità, per impedire che condannati in via definitiva possano ricoprire cariche elettive. Quale miglior occasione di rispolverare, in proposito, il ddl anticorruzione, il classico antidoto agli scandali proposto dai politici di fronte a microfoni e telecamere.
Dal governo, insomma, era arrivata una proposta eclatante, per ricostruire un briciolo di legittimità a un Parlamento ormai in perenne stato d’accusa da parte dell’opinione pubblica. Tutto ciò, si badi bene, mentre si avvicinano alcuni appuntamenti che in pochi mesi ridisegneranno i profili delle massime istituzioni.
In ordine di agenda, a dare il via saranno le tre Regioni cardine dello Stato, cioè Sicilia, Lazio e Lombardia, simmetricamente suddivise tra sud, centro e nord. Da lì, si passerà frettolosamente alle elezioni politiche, da cui scaturirà il Parlamento che eleggerà il prossimo presidente della Repubblica. Il tutto, in una manciata di mesi.
E’ dunque urgente che il governo tecnico, se vuole smarcarsi fino in fondo dalla malapolitica cui proclama di voler porre rimedio, si affretti a tradurre in pratica quanto promesso sull’incandidabilità dei condannati, redigendo e consegnando alle Camere il testo di legge senza ulteriori rinvii.
Altrimenti, questa fase della politica italiana verrà ricordata non solo come quella dell’Imu, del caos esodati, degli scandali alle Regioni e dello spread: ma resterà impressa come l’era in cui si potevano cambiare le cose, e non è stato fatto.
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