Precedentemente all’entrata in vigore della Legge Fornero, infatti, la collaborazione a progetto era stata teatro delle simulazioni più terzomondiste che si potessero immaginare. Per nascondere un altro rapporto di lavoro, il cui peso previdenziale sarebbe stato un problema, si contrattava a progetto per non assumere a tempo indeterminato il lavoratore, chiedendogli, tuttavia, di adempiere a mansioni lavorative, proprio come se fosse un lavoratore dipendente e senza autonomia .
Ma le intenzioni di Marco Biagi non erano affatto queste, e la L. 30/2003 ed il d.lgs 276/03 non vennero fatte per dare ai datori un’ulteriore possibilità di truffare l’erario ed il prestatore, ma per rendere più agevole e chiaro il lavoro.
Adesso, il d.lgs 276/03, al suo “nuovo” articolo 61 (come emendato dalla Legge Fornero), non mostra più quei caratteri che avevano concorso a renderlo la via più facile per mascherare rapporti di lavoro diverso. Non sono più elementi essenziali del contratto a progetto i programmi di lavoro di lavoro o le fasi di esso, che tanto erano stati fraintesi al punto da leggere frequentemente “offerte” di lavoro (domande nel gergo lavorista) che erano a tutti gli effetti ricerche di personale che adempisse a mansioni, senza considerare il risultato finale (già presente nel D.lgs 276/03), ma lasciando ai fatti il compito di caratterizzare sostanzialmente la prestazione di lavoro del vecchio collaboratore a progetto.
La confusione si determinò grazie al colpevole disinteresse della dottrina su questo punto, complice anche il fatto che essa (la dottrina italiana) è tuttora incerta sulla possibilità di discernere il lavoro secondo mansioni dal lavoro per un risultato, ma la nuova chiarissima formulazione dell’art.61 D.lgs 276/03 adesso impone , superata la paura dei gravi “brigatismi” che tanto sono costati alla qualità del diritto del lavoro italiano, di pensare e definire l’oggetto del nuovo contratto a progetto. Senza scalare montagne che produrrebbero un allontanamento dalla domanda principale e necessaria di questo testo (cose come “oggetto della prestazione” ed “oggetto del contratto”) bisogna ripercorrere giusto per un attimo l’evoluzione del nostro diritto civile, per capire la timidezza che ancora esso incontra nel parlare di un’ “obbligazione di lavoro di risultato”.
Il 1989 è stata un’annata densa di eventi, molto significativi. Il muro di Berlino cadeva mentre in Italia il vecchio partito comunista iniziava un’operazione che, seppur cominciata con intenzioni molto diverse, si rese come un facile maquillage della superficie politica delle proprie tesi. Caduto il muro, consolidata, ad ogni buon conto, la via della perestrojka, quella sì molto più attinente alla sostanza che non le varie vie italiane per interpretarla come un semplice lifting, anche la scienza sociale abbisognava di operazioni comparabili, perché il gap tra la politica e la società non fosse troppo grande. Purtroppo anni di ideologia e di contrapposizioni di campanile addussero alla cultura italiana anche il bipolarismo culturale, al punto che si erano già formate culture autoreferenziali di schieramento politico, così indipendenti, l’una dall’altra, da generare compartimenti separati nei quali la discussione fosse altrettanto autoreferenziale (“quello che scrivo non è per tutti ma solo per quelli che sono d’accordo con me nei principi”). Purtroppo per tutti noi questi compartimenti stagni produssero alcune tesi di cui il nostro diritto ancora paga lo scotto.
Tutta la dottrine delle obbligazioni si dovette misurare con il tentativo di alcuni di resistere alla via francese di sintesi delle varie tesi novecentesche, una via cominciata grazie allo spirito d’oltralpe che è molto più proiettato sul futuro rispetto al nostro (coraggioso?), e che provava proprio in quegli anni a teorizzare la distinzione normativa tra obbligazioni di mezzi e di risultato. La riflessione francese durò circa 15 anni, ed alla fine, nonostante lo snobbismo dei giuristi italiani, una commissione, formata dai migliori civilisti francesi, produsse “L’Avant-Projet Catala”, una serie di norme per emendare le Code Civil français che conteneva tre norme importantissime: una sulla definizione dell’obbligazione di risultato, un’altra sulla definizione dell’obbligazione di mezzi ed una terza più lontana sulla definizione delle obbligazioni di garanzia.
Come è noto, la distinzione tra le obbligazioni non è ancora un risultato normativo ma un teorema giurisprudenziale e dottrinale. Teorema che in Italia ha incontrato, per tesi dallo scarso valore logico, il timore e la resistenza diffusa a voler considerare normativamente la necessità di distinguere le obbligazioni. Sarkozy, giurista cosciente che il problema giuridico fosse di levatura europea, fece approvare le contrat de mission, un’obbligazione di lavoro secondo la quale la parte lavoratrice dovesse adempiere alla mission (il significato francese è uguale a quello italiano di missione) contrattata con la parte datrice, assegnando non solo la legittimità metepolitica del lavoro a tempo determinato a questo tipo di contratto, ma anche la sua gravitazione all’interno delle obbligazioni di mezzi.
Lo stesso (e compianto) Marco Biagi scriveva nel suo ultimo manuale, nel parlare dell’intenzione di scrivere una norma sull’obbligazione a progetto, che, data la confusione innescata da tesi a lui molto vicine sulla liceità di considerare la diligenza impossibile da discernere dal risultato, che questa nuova obbligazione (al momento ancora in embrione) avrebbe dovuto sì tenere conto del tentativo italiano di sintesi tra mezzi e risultati, ma per creare un’obbligazione che tenesse al suo interno sia il risultato che la diligenza (stante la difficoltà ricostruttiva dei concetti di locatio operis et operarum).
Seppur possa sembrare incredibilmente noioso questo dibattito che tuttora imperversa latentemente nel nostro diritto civile, esso è sufficiente a dare un “assaggio” della vera sostanza di quanto fin qui esposto, vale a dire la creazione del concetto di “obbligazione di lavoro di risultato”. Il fatto che Sarkozy sia intervenuto pochi mesi dopo la redazione de l’Avant-Projet Catala creando il contratto di missione lavorativa, può illuminare il lettore sul fatto che, nonostante risulti il contratto di lavoro menzionato ai margini estremi di questo dibattito di proporzioni oramai europee, sia il contratto di lavoro a fare la parte più importante, tanto importante che finora quasi tutti si sono guardati dall’affrontare, e tanto importante che il Governo Hollande ed il nuovo Parlamento francese a giugno del 2012 hanno sì approvato il nuovo codice civile, ma lasciando ancora sospesa l’approvazione della parte avanguardista propria della dottrina francese, in attesa che soprattutto la nostra dottrina smetta di mostrarsi tanto refrattaria alle innovazioni quanto lo è stata finora. Lavorare secondo mansioni è differente o no dal lavorare perseguendo un risultato?
Questo è il problema principale, che ancora sembra lontano da una risposta definitiva di proporzioni europee o di civil law. Il diritto hispanico, altra parte fondamentale del civil law, resta a guardare da lontano questo dibattito per non lasciarsi coinvolgere (ed anche per rispetto, bisogna dirlo), ma dalla Legge Fornero (dai commi 23 e ss. dell’art. 1), con quella formulazione chiarificatrice del contratto a progetto che rende il risultato specifico finale un elemento essenziale dello stesso, si comprenderà come il punto debba essere ancora risolto. In questo testo si proverà a dare una mano interrogandoci sull’oggetto del nuovo contratto a progetto, stando molto attenti a non invadere il campo di altre e diverse obbligazioni, quelle svolte dai liberi professionisti, i quali (gli avvocati) hanno perfino rifiutato il famoso “patto di quota lite”, la cui apposizione sul mandato avrebbe conferito alla prestazione legale i caratteri di un’obbligazione di risultato.
Partendo dal nuovo articolo 61 D.lgs 276/03, non verrà mai (più) fatto un contratto a progetto per adempiere a mansioni. Dovrà il datore indicare il risultato specifico che vuole veder conseguito, altrimenti il contratto sarà ex officio riconducibile ad una diversa obbligazione di lavoro che è quella classica, di diligenza ed a tempo indeterminato. Il DL 138/2011 assegnava (assegna) alla c.d. contrattazione di prossimità il compito di tracciare i contorni dell’obbligazione a progetto (art. 8, comma 2, lettera e). La contrattazione di prossimità è il momento di discussione tra sindacati territoriali ed imprenditore, o tra i livelli più prossimi dei sindacati maggiormente rappresentativi sul piano nazionale e l’azienda o il livello provinciale dei sindacati datoriali. Inutile ricordare che il ruolo della politica in questo livello di contrattazione è quasi determinate, qualora non si voglia che tanto l’occupazione quanto l’inoccupazione restino invariate.
Non si potrà, altresì, trascurare che le obbligazioni di lavoro da svolgere in condizioni apicali di buona fede e correttezza, tanto la dottrina francese che la giurisprudenza, ormai chiamano “obbligazioni di garanzia”, dando ad esse la possibilità di variare tra risultato e diligenza a seconda dei patti tra le parti, e che il diritto civile francese sia, ormai e rebus sic stantibus, l’avanguardia del diritto civile europeo e di civil law (considerando i due concetti, giocoforza, distinti tra di loro).
A tutto ciò si aggiunge che, rispetto alle intenzioni del Ministro Fornero, la discussione al Senato della Repubblica ha aggiunto l’obbligo della retribuzione meritoria (in relazione alle equivalenti mansioni svolte nello stesso territorio produttivo). Questo punto, però, è meno ostico di quanto non appaia, nel senso che un risultato non è equiparabile ad una mansione lavorativa, visto che il primo è il momento finale ed auspicato del contratto e la seconda è il contratto in fieri, nel suo svolgersi. Per inciso, un risultato può valere molto di più, economicamente parlando, dell’adempimento a talune mansioni.
Perdipiù un risultato (un contratto a progetto), inteso come autonoma obbligazione accessoria a quella principale di diligenza, è in grado di costituire il lavoro straordinario del prestatore, intendendo che fino alle 8 ore lavorative il lavoratore lavori con la classica obbligazione di diligenza e dopo di quel termine, se ha contrattato tutto ciò con il datore, resti a lavorare, ma questa volta per l’ottenimento di uno scopo determinato precedentemente, approfittando dello sgravio fiscale che da qualche anno viene garantito al lavoro straordinario (tassazione al 10% contro il 30% c/a del contratto a progetto solitario). Non bisogna, infatti dimenticare o tralasciare il fatto che la dottrina civilistica spagnola faccia della componibilità delle obbligazioni (la compunibilidad de las obligaciones) uno dei punti da cui essa parte per esporsi, meritoriamente si potrà aggiungere, visto che altri diritti non appaiono altrettanto disposti ad accettare un diritto civile “confusionario”. Sarà compito del datore o dei sottoposti incaricati di non consentire misture tra l’adempimento secondo diligenza alle proprie mansioni ed il lavoro fatto per raggiungere il risultato contrattato.
Ad ogni buon conto, è ancora fagliante in questo testo la domanda principale dalla quale esso si è originato, vale a dire l’oggetto della collaborazione a progetto. La risposta che ci si sente di dare al quesito è semplice, ed al contempo tratta dalla realtà. Sono le parti, secondo quanto Giuseppe Pera scrisse nel suo manuale, a determinare se vogliono dare vita ad un rapporto di lavoro di risultato (come la legge impone qualora si voglia fare un contratto a progetto) oppure ad un rapporto di lavoro di diligenza a tempo determinato. Aver bisogno del risultato dell’organizzazione di una festa o di una serata ludica non richiede la diligenza del prestatore ma richiede che al momento dell’evento sia stato prodotto ciò che era stato precedentemente richiesto dal committente, e che sia in grado di produrre il risultato della festa secondo i canoni richiesti dalla parte committente (e magari contrattati con il collaboratore). Come il Governo Berlusconi stabilì nel DL 138/2011, è l’autonomia dei privati a far statuire loro se e come il rapporto di lavoro debba essere inquadrato nei crismi dell’obbligazione di risultato, considerando che per immagini lavorative diverse non mancano certo i tipi contrattuali ai quali afferire per definire una prestazione lavorativa, nonostante sia ancora agli albori la discussione dottrinale che la collaborazione a progetto si merita. E se la via dell’obbligazione di lavoro di risultato è preclusa dal dovere del datore di definire con precisione il risultato specifico auspicato, bene, che essi imparino a battere al computer, visto che aver chi nell’ambito dell’azienda, o addirittura fuori di essa, persegua un risultato che sia spendibile dal datore (rectius: che sia proprio come il datore lo aveva contrattato assieme al collaboratore) sembra essere effettivamente un’evoluzione rispetto allo stato pre-riforma dei rapporti di lavoro. Senza ombra di dubbio, nonostante delle sommesse resistenze che appaiono qui e là su internet nei siti che si occupano di lavoro, appare imprescindibile il fatto che il nuovo art. 61 richieda la definizione non delle mansioni del prestatore ma del risultato specifico che egli deve ottenere (una catalogazione, un solco nella terra per far affluire l’acqua alle coltivazioni, un trasporto di cose da un punto a ad un punto b, un programma informatico che faccia gestire meglio i clienti di un bar, il montaggio di una cucina per conto del venditore o dell’acquirente). Tutto ciò che non è elencato in questa lista subitanea non vuol dire che non ci siano altri risultati perseguibili da un lavoratore, ma semplicemente che l’autonomia dei privati è il bene più importante di una economia reale fondata sul lavoro, e che la loro fantasia (diciamo “creatività”), dei datori e dei prestatori, può non conoscere limiti che non siano dettati da valori costituzionali.
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