“Meno di un anno fa il decreto salva Italia, raccogliendo la spinta di una campagna mediatica per l’abolizione delle Province, come “simbolo” della lotta contro i costi della politica, prevedeva la sostanziale scomparsa, in tutte le Regioni, grandi e piccole, di questi enti, svuotati di funzioni e perciò ridotti, in tal modo sì, a “enti inutili”: a tutto a vantaggio non tanto degli ottomila Comuni, quanto di un nuovo accentramento dell’amministrazione locale in capo alle Regioni. Un disegno francamente in contrasto con la Costituzione.
Ora il nuovo decreto legge del Governo, approvato dal Parlamento all’inizio di agosto, ha corretto saggiamente il tiro: non più svuotamento in vista della soppressione di tutte le Province, ma riordino della loro mappa, attraverso la soppressione per accorpamento di quelle al di sotto di certi limiti di dimensione territoriale e demografica, accompagnato dalla conferma delle fondamentali funzioni di “area vasta” in capo alle Province superstiti, nonché, finalmente, dall’avvio concreto del procedimento per la istituzione in dieci aree del paese delle Città metropolitane, destinate a loro volta a sostituire le rispettive Province. In questi giorni i Consigli regionali delle autonomie locali sono chiamati a formulare una ipotesi di riordino, sulla cui base le singole Regioni dovranno avanzare le loro proposte, destinate a sfociare entro ottobre in un provvedimento legislativo statale di carattere generale. Già però sono comparse le resistenze delle piccole Province destinate a fondersi, e si moltiplicano i ricorsi giurisdizionali diretti a contestare la legge che ha disposto il riordino, invocando presunte lesioni di autonomia e di “specificità” territoriali.
Intendiamoci: non è che non si possano nutrire dubbi sulla congruità in assoluto dei nuovi requisiti dimensionali (almeno 2.500 chilometri quadrati di territorio e almeno 350mila abitanti) e sul carattere rigido di tali criteri, destinati a trovare applicazione in tutte le aree e in tutte le Regioni del paese. Ben si sa che non esiste in natura la “dimensione ottimale” astratta degli enti di autogoverno territoriali (nemmeno degli Stati: sappiamo come esistano Stati più piccoli di molte nostre Regioni), ma esiste una grande varietà di situazioni. La storia è spesso più forte della geometria degli economisti o dei riformatori che dividono il territorio tracciando delle righe sulla carta geografica. E se all’esito del riordino risultasse riconosciuta l’identità storica di qualche territorio provinciale con soli duemila chilometri quadrati di superficie o soli 250mila abitanti non ci sarebbe affatto da gridare allo scandalo. Come non vi sarebbe, peraltro, da gridare allo scandalo (anzi, sarebbe del tutto razionale) se si abolissero tout court le Province (come già avvenne nel 1945 in Valle d’Aosta) nelle Regioni più piccole, come il Molise o la Basilicata.
La Provincia serve per le funzioni di “area vasta”: ma se la circoscrizione regionale già costituisce una idonea area vasta, non v’è motivo perché coesistano due livelli di governo, la Regione e la Provincia. In ogni caso non si può negare la legittimità e l’utilità del “riordino”. Né si può ritenere che la Costituzione, la quale rimette alla legge dello Stato, oltre alla determinazione delle funzioni fondamentali degli enti locali, l’approvazione o meno, in base a una visione generale degli interessi del Paese, delle iniziative comunali per la istituzione di nuove Province o per la modifica di quelle esistenti, neghi invece al Parlamento il potere di sopprimere o accorpare Province esistenti, in un disegno generale di razionalizzazione delle funzioni e della spesa, anche senza l’iniziativa e l’accordo dei Comuni interessati (la cui voce, insieme a quella delle Regioni, pure deve essere sentita, dentro e fuori del Consiglio delle autonomie locali).
Per quanto si possa considerare “rozzo” il requisito dimensionale fissato con la delibera del Governo (e per quanto sia vero che a ogni Provincia non devono necessariamente corrispondere anche uffici statali decentrati come le Prefetture), si dovrà riconoscere la legittimità di un ridisegno complessivo delle autonomie territoriali, e ammettere che da qualche parte bisogna ben cominciare, se si vuole contrastare decisamente il frutto dei frazionismi localistici che troppo a lungo hanno prevalso nel paese. Le Province erano, nel 1948, 91 (compresa Trieste, momentaneamente “Territorio libero”, ed esclusa Aosta, divenuta Regione): da allora – anzi, essenzialmente a partire dagli anni Novanta, nonostante nel frattempo le comunicazioni sul territorio siano diventate certamente più agevoli e rapide – una raffica di iniziative accolte dal Parlamento (o dal Consiglio regionale, dove l’autonomia speciale lo consentiva) ha condotto alla creazione di ben 18 nuove Province (otto solo nel 1992), di ridotte e anche ridottissime dimensioni, fino ad arrivare alle attuali 109. Ma – ci si domanda – è ragionevole che la Sardegna passi d’un colpo da quattro a otto Province; che il Piemonte passi da sei Province a otto, la Lombardia da nove a dodici; che si costituiscano nuove Province la cui denominazione fa riferimento a tre diverse città, come Barletta-Andria-Trani, rivelando che dietro, più che un’identità territoriale, sembrano esservi le ambizioni di tanti piccoli nuovi “capoluoghi”; che nel territorio di Monza, facente parte palesemente dell’area metropolitana di Milano, si costituisca invece, otto anni dopo che la Costituzione ha previsto la creazione delle Città metropolitane, la nuova Provincia della Brianza?
Ecco perché, sarà rozzo il criterio adottato, ma è difficile negare che, se si vuole conseguire il risultato, non ci sono molte altre strade praticabili. È quindi auspicabile che resistenze politiche e azioni giudiziarie non impediscano di raggiungerlo. Il Governo ha ottenuto un successo forse inatteso con la soppressione dei piccoli Tribunali e delle sezioni staccate di Tribunale: è da augurarsi che il più arduo passaggio del riordino delle circoscrizioni provinciali e della creazione delle Città metropolitane segni un nuovo successo”.
Dall’analisi del prof. Onida emergono alcuni elementi chiave:
1) L’evidente contrasto con la Costituzione delle previsioni del decreto “salva Italia” di dicembre 2011 che svuotava le Province di ogni funzione se non “esclusivamente la funzione di indirizzo e coordinamento dell’attività dei Comuni”;
2) La condivisione del “cambio di rotta” del Governo con il decreto sulla “spending review” che ha elencato le funzioni fondamentali delle Province ed avviato il “riordino” sulla base di criteri legati alla dimensione territoriale ed alla popolazione (fissate con deliberazione del Consiglio dei Ministri del 20 luglio);
3) Qualche debole critica su tale criterio definito “rozzo” ma necessario;
4) La “razionalità” di qualche giustificata deroga legata alla peculiarità storica o territoriale;
5) La sostanziale affermazione di legittimità costituzionale della procedura di riordino;
6) L’auspicato successo di tale impostazione.
Pur ampiamente condivisibile gran parte dell’analisi del prof. Onida, ci restano alcuni dubbi.
Dubbi legati ancora una volta da un’analisi che ci appare monca di un aspetto fondamentale: le funzioni.
Perché se è vero che con la Legge 135/2012 (spending review) sono state individuate le funzioni fondamentali (a – pianificazione territoriale provinciale di coordinamento nonché tutela e valorizzazione dell’ambiente, per gli aspetti di competenza; b – pianificazione dei servizi di trasporto in ambito provinciale, autorizzazione e controllo in materia di trasporto privato, in coerenza con la programmazione regionale nonché costruzione, classificazione e gestione delle strade provinciali e regolazione della circolazione stradale ad esse inerente; c -programmazione della rete scolastica e gestione dell’edilizia scolastica relativa alle scuole secondarie di secondo grado) è altrettanto vero che vi è un ampio ridimensionamento delle funzioni oggi svolte dalle Province e destinate ad essere trasferite a Regioni o Comuni.
Appare irrazionale ridurre il numero delle province e conseguentemente rendere quelle esistenti molto più grandi ma, nello stesso tempo, ridurre drasticamente le loro funzioni e competenze. Quando si agisce per razionalizzare gli enti locali si cerca di estenderne il territorio, ma concentrando più funzioni, non eliminandole.
Così mentre si riducono le funzioni delle province, si obbligano i comuni a convenzionarsi o costituirsi in unioni di comuni, anche proprio allo scopo di gestire al meglio le funzioni provinciali, per loro natura di dimensione sovracomunale.
Perché allora non lasciare le competenze delle province alle province?
Caso emblematico ci è offerto dalle funzioni in materia di istruzione assegnate alle province, che a noi appaiono quasi inscindibili con quella della formazione professionale e del mercato del lavoro, non ribadite tra le funzioni fondamentali delle Province e quindi da trasferire a Regioni o Comuni.
Va ricordato al riguardo che dal 2001 sono state decentrate alle Province le funzioni attinenti i Servizi per l’Impiego e da allora gran parte delle Province hanno avviato un percorso che ha portato a rinnovare le strutture e le piattaforme informative e soprattutto a innovare profondamente i servizi offerti aggiungendo a quelli amministrativi (tipici dei vecchi Uffici di Collocamento) nuovi servizi di orientamento e accompagnamento al lavoro.
E’ da mettere altresì in evidenza che la formazione professionale assegnata oggi alle Province e non più ribadita, soprattutto la formazione per adulti, nell’attuale periodo di crisi, è stata fortemente potenziata essendo una delle poche “Politiche Attive del Lavoro” che ha avuto una buona ricaduta in termini occupazionali.
E’ da ricordare che per le funzioni delle Province in materia di mercato del lavoro, in particolare, è stato recentemente predisposto ed ultimato e quindi esaminato dalla CoPAFF, Commissione tecnica paritetica per l’attuazione del federalismo fiscale, nella seduta del 28 giugno scorso, il documento tecnico metodologico relativo ai fabbisogni standard per la funzione Sviluppo economico – centri per l’impiego – delle Province, che rappresenta il punto di riferimento, previsto dalla legge, per valutare l’efficienza dei servizi resi.
E sull’istituzione delle città metropolitane, tralasciando gli altri aspetti critici sulla procedura di istituzione, emerge ancora una volta il tema delle funzioni e l’irrazionalità dell’impostazione seguita dal Governo.
Nella stessa relazione tecnica del Governo, riferita all’art. 18 del decreto legge che prevede l’istituzione delle città metropolitane, si legge:
“La norma che istituisce dieci città metropolitane in luogo delle rispettive province persegue finalità di efficacia ed efficienza, attraverso il conferimento alle medesime Città metropolitane di funzioni ulteriori rispetto a quelle provinciali, a garanzia anche di una ottimale integrazione delle funzioni”.
Il Governo ritiene che l’istituzione delle Città Metropolitane garantisce finalità di efficacia ed efficienza perché attribuisce alle stesse, al posto delle soppresse Province:
a) Le funzioni delle Province stesse
b) Ulteriori funzioni a garanzia di una ottimale integrazione delle stesse:
– pianificazione territoriale generale e delle reti infrastrutturali;
– strutturazione di sistemi coordinati di gestione dei servizi pubblici, nonché organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito metropolitano;
– mobilità e viabilità;
– promozione e coordinamento dello sviluppo economico e sociale.
Ma allora ci chiediamo:
Perché mai nell’area metropolitana di Bologna (998.000 abitanti), Reggio Calabria (566.000 abitanti), Genova (900.000 abitanti), Bari (1.200.000 abitanti) etc. dovrebbe rispondere a finalità di efficacia ed efficienza istituire un ente intermedio tra Regione e Comuni, con le funzioni della Provincia integrate con altre di area vasta, e lo stesso principio non vale per Province come Verona, Treviso, Vicenza, Padova, solo per restare in Veneto, con una media di 900.000 abitanti ciascuna?
Va ricordato infatti che ai sensi dell’art. 18, comma 2, del D. L. 95/2012 “Il territorio della città metropolitana coincide con quello della provincia contestualmente soppressa”.
Ed alcune delle città metropolitane previste, come appunto Bologna, Reggio Calabria o Genova, hanno un numero di abitanti inferiore a quello di molte Province di cui si paventa la soppressione/accorpamento o certamente lo svuotamento parziale di funzioni.
Perché mai per i cittadini della Provincia di Venezia è più efficiente che ad occuparsi di “promozione e coordinamento dello sviluppo economico e sociale” sia la città metropolitana e per i cittadini confinanti della provincia di Padova è più efficiente che se ne occupino i Comuni o la Regione?
È chiaro che la città metropolitana ha senso soltanto se gestisce un territorio omogeneo, con problematiche comuni, non semplicemente per successione universale alla corrispondente soppressa Provincia.
Piuttosto sono proprio le considerazioni del Governo nella relazione tecnica che avrebbero dovuto imporre una riflessione attenta che partisse dalle competenze, da una valutazione effettiva di efficienza ed efficacia della loro gestione, prima di fissare per decreto legge la soppressione di un certo numero di Enti nell’assoluta incertezza dei benefici sotto ogni punto di vista.
Al contrario l’impostazione seguita dal Governo ci porta a ritenere che il fulcro principale della decisione di istituire le Città metropolitane sia la soppressione delle corrispondenti Province e non un chiaro disegno organico e definito della nuova Istituzione.
Lo stesso Prof. Onida, (Corriere della Sera 23 luglio 2011) nei mesi scorsi aveva scritto: Tra le funzioni delle Province vi sono quelle riguardanti «vaste aree intercomunali o l’intero territorio provinciale» , nei settori della difesa del suolo, della difesa dell’ambiente, dei trasporti, dello smaltimento dei rifiuti, dell’istruzione secondaria di secondo grado. Alla Provincia fanno poi capo rilevanti funzioni di programmazione, in particolare il piano territoriale di coordinamento che determina gli indirizzi generali di assetto del territorio. Chi dovrebbe svolgere queste funzioni, se venissero soppresse le Province? Non è pensabile che compiti di «area vasta» possano essere attribuiti agli oltre 8.000 Comuni (dei quali circa 7.500 con meno di 15.000 abitanti): dunque essi andrebbero in gran parte alle Regioni. In teoria sarebbe anche possibile immaginare un sistema di «enti intermedi» costituiti da associazioni di Comuni, con uffici e strutture condivisi. Ma l’esperienza dice che mettere d’accordo fra loro 20 o 100 Comuni della stessa area per esercitare insieme delle funzioni è assai complicato, e non è detto costi meno che affidare tali funzioni ad un ente autonomo come la Provincia. Né, ovviamente, è proponibile un accorpamento massiccio dei piccoli Comuni: l’autonomia comunale si nutre della storia e del senso di autoidentificazione delle comunità, grandi e piccole, sul quale è destinato ad infrangersi ogni disegno «razionalizzatore» astratto. Sarebbe anche possibile immaginare che la Regione decentri i suoi uffici nel territorio. Le unità organizzative (e il personale) però non diminuirebbero. Si «risparmierebbe» solo l’elezione di presidenti e di consigli: ma siamo sicuri che l’accentramento politico in capo alla Regione, che ne risulterebbe, sia una soluzione soddisfacente? Uno dei timori e dei rischi che da sempre caratterizzano il nostro sistema delle autonomie è quello del «centralismo» regionale. Non è affatto detto che un semplice decentramento amministrativo della Regione sia in grado di soddisfare le aspirazioni di autogoverno delle popolazioni. Il punto, semmai, è un altro. Le realtà regionali non sono tutte eguali. La Lombardia ha 9 milioni di abitanti e oltre 1.500 Comuni: immaginare che tutte le funzioni di «area vasta» siano governate dal Pirellone sarebbe follia pura: provate a dire agli abitanti dei piccoli e grandi Comuni del Comasco o del Bresciano che tutto ciò che è sovracomunale deve dipendere politicamente da Milano!”.
E ancora (Sole 24 Ore, 24.01.2012): “L’attuazione del decreto si tradurrebbe in una grandiosa operazione di nuovo accentramento. Scontato che la costituzione di forme associative o di collaborazione dei Comuni, in grado di ereditare le funzioni provinciali, richiederebbe tempi lunghi e porrebbe grandi difficoltà, è facile prevedere che le funzioni oggi svolte dalle Province finirebbero nella mani della Regione, con conseguenze assai dubbie in termini di efficienza, esiti di allontanamento delle Amministrazioni dai cittadini e perfino incremento dei costi (i dipendenti provinciali diverrebbero dipendenti regionali, con trattamento economico superiore rispetto all’attuale: un bel risultato per un decreto taglia-spesa). Su tutto ciò è urgente che sia chiamato ad intervenire il giudice costituzionale, per fortuna meno esposto degli organi politici al vento di campagne sommarie e impressionistiche”.
Appare dunque evidente come il tema delle funzioni non può in alcun modo essere disgiunto dal “riordino”.
Un’ultima considerazione: la legittimità costituzionale della procedura di riordino delle Province.
L’art. 133 prevede: “Il mutamento delle circoscrizioni provinciali e la istituzione di nuove Province nell’ambito d’una Regione sono stabiliti con leggi della Repubblica, su iniziativa dei Comuni, sentita la stessa Regione”.
Il Prof. Onida oggi ritiene: “Non si può ritenere che la Costituzione (…) neghi al Parlamento il potere di sopprimere o accorpare Province esistenti, in un disegno generale di razionalizzazione delle funzioni e della spesa, anche senza l’iniziativa e l’accordo dei Comuni interessati (la cui voce, insieme a quella delle Regioni, pure deve essere sentita, dentro e fuori del Consiglio delle autonomie locali)”.
Nella relazione al disegno di legge di iniziativa governativa n. 3396 per la conversione del decreto-legge n. 95/2012 (spending review) si legge: “anche a voler prescindere dalla considerazione che, trattandosi di riordino complessivo, non trova applicazione l’art. 133 della Costituzione, va rilevato in ogni caso che detto articolo è, nella sostanza, rispettato visto che i Comuni sono pienamente coinvolti tramite il Consiglio delle autonomie locali”.
Secondo il Governo, quindi, in caso di riordino delle Province che coinvolga tutto il territorio nazionale, è possibile derogare al procedimento legislativo di tipo aggravato di cui all’art. 133, comma 1, della Carta costituzionale. La norma costituzionale, pertanto, troverebbe applicazione unicamente per modifiche di circoscrizioni provinciali ed istituzioni di nuove Province limitate all’ambito regionale.
Ci sia consentito osservare che dalla lettura dell’art. 133, comma 1, della Costituzione non emergono elementi che consentono una deroga nel caso di un riordino complessivo delle Province.
La Corte Costituzionale peraltro, nella sentenza 19 luglio 1994 n. 347 ha sottolineato: “L’art. 133 della Costituzione dispone che al mutamento delle circoscrizioni provinciali esistenti o alla istituzione di nuove Province nell’ambito di una Regione si possa giungere mediante “legge della Repubblica, su iniziativa dei Comuni, sentita la stessa Regione”. Questa procedura non esclude che l’istituzione di una nuova Provincia (o la modifica della circoscrizione di una Provincia esistente) possa essere effettuata, oltre che con legge formale delle Camere, anche mediante il ricorso ad una delega legislativa, nel rispetto dei limiti richiamati nell’art. 76 della Costituzione. (…) non è dato individuare ostacoli di natura costituzionale suscettibili di impedire che gli adempimenti procedurali destinati a “rinforzare” il procedimento (e consistenti nell’iniziativa dei Comuni e nel parere della Regione) possano intervenire, oltre che in relazione alla fase di formazione della legge di delegazione, anche successivamente alla stessa, con riferimento alla fase di formazione della legge.
La Corte Costituzionale ha pertanto considerato legittimo che la istituzione di Province o la modifica di quelle esistenti possano essere effettuate, oltre che con legge formale, con ricorso ad una delega legislativa, ma sempre nel rispetto di quel procedimento ascensionale che vede coinvolti, con potere di iniziativa, i Comuni. Al potere legislativo spetta soltanto valutare, nella fase conclusiva dello stesso procedimento, l’idoneità e l’adeguatezza dell’ambito territoriale destinato a costituire la base della nuova Provincia.
Va ricordato inoltre che l’iniziativa comunale finalizzata alla modifica della circoscrizione provinciale è regolamentata dall’art. 21 del Testo Unico degli Enti Locali (D. Lgs. 267/2000), che la subordina ad una serie di condizioni, del tutto ignorate dalla Legge 135/2012 ed anzi incompatibili con le previsioni della deliberazione del Consiglio dei Ministri del 20 luglio 2012.
Dispone il citato art. 21: “Per la revisione delle circoscrizioni provinciali e l’istituzione di nuove province i comuni esercitano l’iniziativa di cui all’articolo 133 della Costituzione, tenendo conto dei seguenti criteri ed indirizzi:
a) ciascun territorio provinciale deve corrispondere alla zona entro la quale si svolge la maggior parte dei rapporti sociali, economici e culturali della popolazione residente;
b) ciascun territorio provinciale deve avere dimensione tale, per ampiezza, entità demografica, nonché per le attività produttive esistenti o possibili, da consentire una programmazione dello sviluppo che possa favorire il riequilibrio economico, sociale e culturale del territorio provinciale e regionale;
c) l’intero territorio di ogni comune deve far parte di una sola provincia;
d) l’iniziativa dei comuni, di cui all’articolo 133 della Costituzione, deve conseguire l’adesione della maggioranza dei comuni dell’area interessata, che rappresentino, comunque, la maggioranza della popolazione complessiva dell’area stessa, con delibera assunta a maggioranza assoluta dei consiglieri assegnati;
e) di norma, la popolazione delle province risultanti dalle modificazioni territoriali non deve essere inferiore a 200.000 abitanti;
f) l’istituzione di nuove province non comporta necessariamente l’istituzione di uffici provinciali delle amministrazioni dello Stato e degli altri enti pubblici;
g) le province preesistenti debbono garantire alle nuove, in proporzione al territorio ed alla popolazione trasferiti, personale, beni, strumenti operativi e risorse finanziarie adeguati”.
Al riguardo va sottolineato per quanto la nozione di legge rafforzata sia di incerta disciplina, che l’art. 1, comma 4, TUEL esclude l’abrogazione tacita delle norme del testo unico stesso (è quindi legge rafforzata) e che pertanto dovrebbero convivere e giustapporre le norme assolutamente incompatibili dell’art. 17, dl 95/12 incentrato sugli automatismi legati alla rilevazione dei requisiti minimi fissati dalla deliberazione del Consiglio dei Ministri, e le previsioni dell’art. 21, le quali subordinano ad una serie ben più articolata e discrezionale l’iniziativa comunale.
Né può dirsi che il ruolo attribuito nel processo di riordino ai CAL possa considerarsi equivalente all’iniziativa comunale di cui all’art. 133 Cost, dato che la partecipazione obbligatoria ad un siffatto organismo, nemmeno assicurata al singolo comune in quanto tale ma eventualmente solo ad organismi di rappresentanza e non certo a tutti i comuni di una provincia destinata all’estinzione, non può qualificarsi in alcun modo come iniziativa comunale ma una mera partecipazione procedimentale che ha tutt’altra natura e cioè un ruolo del tutto passivo e obbligatorio, e non attivo e propositivo.
Sono i Comuni, enti locali territoriali singolarmente considerati, ad essere titolari della riserva di competenza ad attivare un eventuale procedimento revisorio e non altri organismi ancor più nell’ambito di un procedimento già precostituito dal Governo e non rimesso affatto alla libera ed autonoma iniziativa delle amministrazioni comunali, per di più prevedendo un intervento in via sostitutiva del Governo (art. 17, comma 4) nel caso in cui le deliberazioni non dovessero essere assunte.
Ci sia consentito dunque porre in dubbio le conclusioni sulla legittimità costituzionale del riordino delle Province, pur così autorevolmente espresse.
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