Con la sentenza 14368 del 10 agosto 2012, la Cassazione è tornata ad occuparsi del tema della pubblicità dei professionisti, e degli avvocati in particolare, in sede di legittimità rispetto ad un procedimento deciso con applicazione della sanzione della censura da parte del CNF.
Vediamo i contorni di questa vicenda, insieme tuttavia alle nuove disposizioni in materia portate dal D.P.R. 7 agosto 2012 n. 137, in vigore da ferragosto 2012.
Come è noto, la Corte Suprema in materia deontologica non interviene nel merito (ad es. circa la congruità della sanzione inflitta) ma solo in caso di incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge. Questo assetto deriva dall’autonomia delle istituzioni forensi nella protezione dei valori fondamentali dell’avvocatura e quindi nella valutazione della condotta dei professionisti appartenenti all’Ordine, mentre al giudice statuale compete accertare la regolarità del procedimento e quindi il rispetto dei diritti della persona-avvocato.
Per questo motivo, la pronuncia in questione, che è di rigetto del ricorso, va esaminata insieme al provvedimento adottato dal CNF, che poi è la decisione n. 93/2011 del 13 novembre 2010-7 luglio 2011.
Ancora prima, bisogna però richiamare i tratti essenziali del fatto commesso, così come emergono dai documenti di causa.
In sostanza, l’avvocato incolpato aveva fatto quanto segue:
1) aperto uno studio chiamandolo «Angolo dei diritti» in un locale posto sul piano strada, applicando alle vetrine vetrofanie multilingue ed indicando sulle stesse le materie trattate;
2) aperto un sito internet all’indirizzo www.angolodeidiritti.it senza comunicarlo all’ordine territoriale, come previsto dal codice deontologico, e indicando gli orari del proprio studio come «orari negozio»;
3) offerto al pubblico prestazioni professionali, anche di natura giudiziale, ad un costo predeterminato e quantificato forfettariamente, senza riferimento al valore ed all’importanza della pratica nonché al/a sua presumibile durata, precisando anche che “si concedono a richiesta pagamenti personalizzati e dilazionati” e si praticava il “patto di quota lite”‘;
4) rilasciato alcune interviste a quotidiani locali in cui sosteneva, con riferimento al suo gruppo di legali, quanto segue: “Ci rivolgiamo a quella fascia di persone che non si rivolgono all’avvocato per diffidenza … il nostro scopo è quello di migliorare l’approccio e facilitare il ricorso del cittadino al/a giustizia…, promuovendo un’idea di assistenza legale come servizio a favore di tutti e non appannaggio di alcuni;”
Per tali condotte, l’ordine territoriale di Varese applicava la sanzione disciplinare della censura. Il CNF confermava la sanzione, motivando come segue:
«preliminarmente, […] nel caso di specie, non è censurato l’esercizio della professione in ambiente e luogo diverso dalla tradizione o con inusuali modalità comunicative: nel caso di specie, infatti, la localizzazione dello studio non comporta neppure una violazione della riservatezza dell’utente o della dignità professionale del legali che operano nello studio»;
b) relativamente al capo di incolpazione n. 1):
«II Codice deontologico forense, a seguito dell’entrata in vigore della normativa nota come “Bersani” consente non una pubblicità indiscriminata ma la diffusione di specifiche informazioni sull’attività, al fine di orientare razionalmente le scelte di colui che ricerchi assistenza, nella libertà di fissazione del compenso e della modalità del suo calcolo. La peculiarità e la specificità della professione forense giustificano, tuttavia, conformemente alla normativa comunitaria e alla costante sua interpretazione da parte della Corte di giustizia, le limitazioni derivanti dalla necessità di proteggere i beni della dignità e del decoro della professione e la verifica al riguardo è dall’ordinamento affidata al potere-dovere dell’ordine professionale. Nel caso di specie, l’utilizzo delle espressioni ” L’angolo dei diritti” e ” negozio” (solo successivamente eliminata) hanno carattere prettamente commerciale. Esse tendono a persuadere il possibile cliente attraverso un motto pieno di capacita evocativa emozionale, basandosi, quindi, su messaggi pubblicitari eccedenti l’ambito informativo razionale cosi come previsto dalla norma deontologica ciò conformemente al principio, secondo cui «il disvalore deontologico dell’attività di acquisizione della clientela, di per sé lecita e tanto più nell’attuale contesto in cui l’ordinamento comunitario e l’interpretazione di svariate sue norme pongono in evidenza l’aspetto organizzativo, economico e concorrenziale dell’attività professionale, risiede negli strumenti usati ai fini dell’accaparramento, i quali non devono essere alcuno di quelli tipizzati in via esemplificativa nei canoni complementari dell’art. 19, non concretizzarsi nell’intermediazione di terzi (agenzie o procacciatori), né essere, più genericamente “mezzi illeciti” o meglio (nella versione vigente, approvata il 14 dicembre 2006) che possano esplicarsi in modo non conforme alla correttezza e decoro»;
«Quanto ai costi predeterminati, non è condivisibile l’opinione che nega l’avvenuta compromissione, nella specie, dei principi di adeguatezza e proporzionalità: al contrario, è verificabile l’avvenuta lesione, nella specie, del decoro della professione legale, svilita da proposte commerciali che offrono servizi a costi molto bassi. Qui, infatti, non si tratta di valutare se sussista corrispondenza con i minimi tariffari, bensì l’adeguatezza del compenso al valore ed all’importanza della singola pratica trattata; invero i compensi devono sempre essere proporzionati all’attività svolta»
«In merito alle interviste rilasciate ed alle relative espressioni utilizzate (quali: “Ci rivolgiamo a quella fascia di persone che non si rivolgono all’avvocato per diffidenza {…] il nostro scopo è quello di migliorare l’approccio e facilitare il ricorso del cittadino alla giustizia f…], promuovendo un’idea di assistenza legale come servizio a favore di tutti e non appannaggio di alcuni), occorre rilevare un intento captativo e non informativo che, dando della categoria un’immagine negativa, ingenerano diffidenza nella clientela».
La Corte Suprema, come cennato, ha rigettato il ricorso, non ritenendo vi fossero nella decisione impugnata i profili di legittimità indicati dal ricorrente.
Si possono così fare alcune riflessioni sui principi e le idee enucleate dal CNF e, nei modi di cui si è detto, confermati dalla Cassazione. Per comodità di esposizione, si possono raggruppare per punti.
Innanzitutto, va rimarcato come il CNF si sia premurato si specificare come l’utilizzazione di un «negozio a terra» non sia di per sè contrario alle regole deontologiche, quando ovviamente viene salvaguardata la riservatezza degli assistiti (e, dunque, con vetrine oscurate) e la dignità che deve avere uno studio legale (sotto questo punto di vista, immagino siano da escludere vetrofanie eccessivamente vistose o sproporzionate o diciture dirette alla captazione di clientela). Insomma, il legale che vuole utilizzare, in modo sobrio, un negozio a terra, cioè un locale fronte strada, può farlo.
La pubblicità consentita è quella informativa e non quella promozionale e il discrimine tra le due forme, secondo il CNF, risiede nella potenziale efficacia delle espressioni utilizzate ad attingere la «sfera razionale» o, invece, quella «emotiva» del possibile cliente.
Questa distinzione a livello concettuale sembra azzeccata: un conto è dare informazioni, anche dettagliate, sulle modalità con cui viene praticata la professione, sotto il profilo di orari, costi, metodo di lavoro, che possono servire, oggettivamente, ai potenziali utenti per capire a quale legale rivolgersi. Tutto un altro conto, invece, è lanciare slogan, usare espressioni tanto suggestive e «di smalto» all’apparenza, quanto poi povere di contenuti al loro interno, usando il linguaggio tipicamente mercantile o della reclame commerciale, che sono appunto volte, proprio come la pubblicità commerciale, a stimolare la sfera emotiva degli utenti più che a consentir loro una comparazione dei servizi professionali sulla base di dati oggettivi.
Facendo un esempio, un legale che informi di essere iscritto negli elenchi degli avvocati abilitati al patrocinio a spese dello Stato fornisce una informazione oggettiva, di fondamentale utilità per l’utente, specialmente non abbiente, che debba scegliere un legale. Se, invece, si prodiga nel dire di voler offrire giustizia a tutti, anche ai non abbienti, non vuole evidentemente informare, ma più che altro «commuovere», facendo appunto riferimento alla sfera emotiva degli utenti, peraltro in modo ingannevole, perchè la sua eventuale propensione verso gli indigenti non gli deriva certo dal proprio carattere caritatevole, ma dall’esistenza dell’istituto del patrocinio a spese dello Stato, che tuttavia è un beneficio prodigato dallo Stato e può essere utilizzato da tutti i legali iscritti negli appositi elenchi.
Questo orientamento sembra confermato dall’art. 4, comma 2°, del DPR di riforma delle professioni, laddove si specifica che la pubblicità informativa deve essere «funzionale all’oggetto» e quindi, almeno a mio modo di vedere, diretta semplicemente a fornire dati concreti e non ad ammantare il professionista che la pratica, di «smalto» fine a sè stesso.
Dove il provvedimento del CNF appare meno convincente è quando traccia la linea di confine tra benefici di maggior pubblicazione delle caratteristiche dei servizi professionali per gli utenti e dovere di preservare la dignità del corpo forense.
Al riguardo, così motiva: «la peculiarità e la specificità della professione forense giustificano, tuttavia, conformemente alla normativa comunitaria e alla costante sua interpretazione da parte della Corte di giustizia, le limitazioni derivanti dalla necessità di proteggere i beni della dignità e del decoro della professione e la verifica al riguardo è dall’ordinamento affidata al potere-dovere dell’ordine professionale».
Qui qualche dubbio irrisolto sembra ancora rimanere.
Le riforme Bersani, e quelle successive che le hanno sempre confermate, avevano come intento chiaramente quello di favorire l’utente dei servizi professionali e sono leggi dell’ordinamento generale.
Le norme deontologiche, per quanto importanti, sono norme di un ordinamento più particolare, quello forense, che è dotato per noti motivi di autonomia, ma che, di fronte ad esigenze generali, non può che soccombere, altrimenti si ricadrebbe nel corporativismo fine a sè stesso e nei famosi «privilegi».
Nessuno nega che la dignità e il decoro del ceto forense siano un bene importante, ma, almeno a mio giudizio, tali valori andrebbero rivisti in chiave generale, come un interesse di tutta la comunità degli utenti ad una avvocatura forte e degna della sua funzione, non come una questione solamente tra avvocati.
Ciò specialmente in una materia, come quella pubblicitaria, che ha fortemente e necessariamente a che fare con la concorrenza.
Sul punto, il CNF lascia a mio modo di vedere un problema aperto.
Anche perchè la legge Bersani, in materia di pubblicità, sembrerebbe aver lasciato agli ordini il solo compito di accertare la veridicità delle informazioni fornite, senza entrare nel merito, pur rimanendo valido il precetto generale di dignità e decoro. Al riguardo, come vedremo al punto successivo, ci sono novità nel DPR già citato di riforma di tutte le professioni.
Secondo il CNF, l’attività di acquisizione di clientela è da considerarsi in sè e per sè oggigiorno pienamente legittima, ma può diventare deontologicamente illecita quando «gli strumenti usati ai fini dell’accaparramento» non sono quelli ammessi dall’ordinamento e quindi in primo luogo quelli vietati espressamente dal codice deontologico o, più in generale, quelli che «possano esplicarsi in modo non conforme alla correttezza e decoro».
Con questa conclusione sembra contrastare quanto successivamente disposto dal DPR di riforma degli ordinamenti professionali, che, all’art. 4, comma 1°, prevede che la pubblicità informativa è ammessa «con ogni mezzo».
In realtà, anche questa previsione va contemperata con l’obbligo generale di decoro e dignità, ma il problema probabilmente nella pratica è destinato a confondersi sensibilmente. Infatti, a mente del testo legislativo, per poter usare ampiezza di mezzi, la pubblicità deve essere oggettivamente informativa; se un legale fornisse informazioni corrette, ma, ad esempio, utilizzando una gigantesca insegna al neon, idonea ad attingere non solo la sfera razionale, ma anche quella emotiva del potenziale utente, la pubblicità sarebbe sempre ragguardabile come informativa?
Per questi motivi, mi pare azzeccata la linea di demarcazione tracciata dal CNF, di cui si è detto al n. 2), che, come si è pur detto, sembra oggi confermata anche dal DPR in esame.
L’ampiezza dell’espressione legislativa «con ogni mezzo» quindi sembra in conclusione essere minore di quello che si potrebbe pensare ad una prima lettura.
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