Nell’ultima settimana, ho provato a leggere quanto più ho potuto le conversazioni e le reazioni su generazioneperduta.it e sul Manifesto che, insieme a 23 amici, abbiamo scritto e pubblicato in Rete dopo un’intervista rilasciata dal Presidente del Consiglio Monti.
Ho letteralmente divorato editoriali, post e tweet contrassegnati dall’hashtag#generazioneperduta, senza fare eccezioni tra adesioni entusiaste e critiche.
Confesso che sono rimasto sorpreso: nei giorni dell’esodo di agosto, mentre tutti parlavano di spread, olimpiadi e spending review, sono state raccolte oltre mille adesioni e si è aperta una discussione molto partecipata sul tema della generazione dei 30-40enni italiani.
Il dibattito relativo al ruolo e alle opportunità di questi oltre nove milioni di italiani, fortunatamente, non è rimasto confinato nella risposta fornita nel corso di un’intervista dal nostro Premier anche se, naturalmente, le visioni e le risposte da dare sono diverse (ed è giusto che sia così).
Sono grato a tutti quelli che ne hanno scritto, sia per manifestare vicinanza sia per criticare, anche se ho l’impressione che non tutti quelli che ne hanno parlato abbiano letto con attenzione il Manifesto.
Per questo motivo, nella speranza di fornire un ulteriore spunto al dibattito, mi piacerebbe puntualizzare alcuni aspetti poco compresi della nostra iniziativa.
1. Il Manifesto della generazione perduta non è una rivendicazione.
In tanti hanno interpretato l’iniziativa come una rivendicazione generazionale, ma una siffatta ricostruzione è molto lontana dalla realtà delle cose (e dalle nostre intenzioni).
Ho letto e riletto più volte il testo del Manifesto per verificare, ma non mi sembra ci sia un solo passaggio in cui chiediamo qualcosa.
Del resto, l’iniziativa nasce come reazione al torpore con cui è stata accolta un’intervista del nostro Premier in cui la generazione dei 30-40enni veniva definita come “perduta” (mutuando un’espressione utilizzata per la prima volta nel mese di aprile dal Direttore del Fondo Monetario Internazionale, Christine Lagarde).
Lo stesso nome scelto (“generazione perduta”, appunto) rappresenta una provocazione: nessuno dei promotori si sente perduto o vuole “autoghettizzarsi” (come ha sostenuto qualcuno); tutto il contrario. Il Manifesto non è un appello a Monti né ai partiti o a chicchessia, ma una call to action a chi appartiene a questa generazione, un appello a “ritrovarsi”.
L’aspetto che pochi hanno colto dell’iniziativa è proprio un’autocritica forte all’atteggiamento – spesso passivo – che i 30-40enni hanno avuto in un disastro (almeno questo mi sarà consentito) non creato, né voluto, da loro.
Certo, questo non significa che siano da obliare colpe e responsabilità, anche perché – l’esperienza ce lo insegna – è molto difficile (per usare un eufemismo) che chi ci ha condotto in questa situazione possa adesso guidarci fuori dal “guado”.
Ma questo è un altro discorso e, comunque, non può prescindere da un impegno concreto ed attivo della “generazione ritrovata”. Il periodo della vita che va dai 30 ai 40 anni è sempre stato contraddistinto da una particolare capacità di immaginare e produrre una reale revisione del presente: in questa fase della vita, ad esempio, Michelangelo Buonarroti ha dipinto la cappella Sistina, Alessandro Magno è arrivato in India, Einstein ha elaborato la teoria della relatività.
I trentenni, che pure come ha brillantemente scritto Irene Tinagli, sono già una parte importante di questo Paese, non devono aspettare il permesso di nessuno per impegnarsi e provare a proporre le soluzioni ai problemi ereditati da chi ha gestito sin qui il Paese.
2. I problemi non si risolvono con un “Like“.
Il Manifesto ha già raggiunto un obiettivo: stimolare un dibattito su un aspetto cruciale per il presente e il futuro di questo Paese; Generazioneperduta.it nasce proprio per rappresentare un luogo di incontro e confronto in cui dibattere su problemi e proporre ricette.
Naturalmente, nessuno ha mai pensato di rappresentare tutti i trentenni: il Manifesto parla solo per chi lo ha sottoscritto (a questo servono le adesioni).
Si tratta di una mobilitazione realizzata con gli strumenti di questo tempo: internet e social media. Una volta si compravano le pagine dei quotidiani, oggi il messaggio viene diffuso sul Web; ciò ha consentito ad un gruppo di amici di poter raggiungere migliaia di persone in tempi rapidissimi e di portare la discussione sui giornali, sotto l’ombrellone, negli uffici, ecc.
Ovviamente, nessuno pensa che i problemi possano risolversi con una “firma” o con un “mi piace”, senza comportamenti conseguenti e azioni concrete. Ma in mancanza di una consapevolezza diffusa di questa condizione di precarietà e senza luoghi di aggregazione (ora telematica, in futuro fisica) è impossibile pensare a proposte ed azioni condivise.
Un detto africano recita «se vuoi viaggiare veloce viaggia da solo ma se vuoi andare lontano viaggia in compagnia»; il passo fatto con generazioneperduta.it va proprio in questo senso: fare sistema e creare uno spazio di aggregazione in cui tutti i contributi saranno utili. È chiaro che sull’incisività di questa e delle successive azioni si può discutere e sicuramente terremo in grande considerazione suggerimenti e critiche (un’iniziativa nata in 48 ore non può pensare di essere completa e perfetta).
Una nota stonata, però, sono le critiche all’iniziativa basate soltanto sui nomi dei promotori. Innanzitutto perché finiscono con il rivolgersi solo a qualcuno; il gruppo è assai eterogeneo: dipendenti, professionisti, civil servants e ricercatori emigrati all’estero.
Chi dice che si tratta di “viziati” che vogliono il posto fisso, evidentemente non ha letto le loro bio (o ha fretta di etichettare l’iniziativa), secondo il metodo – molto italiano – per cui ,attaccando il promotore, ci si evita di confrontarsi con il merito dell’iniziativa.
Ma, ed è questo l’aspetto che mi sta più a cuore, tali critiche sono gravemente irrispettose di tutte le centinaia di persone (al momento sono quasi 1200) che hanno già sottoscritto il Manifesto, ciascuna delle quali ha la propria esperienza e la propria storia ed ha deciso di riconoscersi e di ripartire da cinque tag: rispetto, merito, impegno, progetto e fiducia.
Centinaia di persone con le quali confrontarsi sui punti del documento e sulle azioni da intraprendere per risolvere una situazione che – mi pare un dato pacifico – è necessario affrontare senza indugio.
3. Noi non siamo “contro i padri”.
Un’altra chiave di lettura che mi sembra decisamente sbagliata (oltre che obsoleta e inadeguata al mutare dei tempi) è quella del “conflitto generazionale”.
Ho avuto, ed ho tuttora, dei fantastici Maestri, amici e colleghi della generazione precedente alla mia; a loro – come è giusto che sia – devo molto di quello che sono, di quello che so e delle opportunità che ho avuto.
Non ci penso proprio ad “ammazzarli” (sia pure in senso figurato), così come non penso ad un Paese concepito come “regno dei trentenni”.
Quello che credo è che, una volta ritrovata, la “generazione perduta” debba dare il proprio contributo e prendersi i propri spazi, lavorando per un vero e proprio “ricambio generazionale”, che è concetto diverso da “conflitto generazionale”.
E non v’è dubbio che nel nostro Paese vi sia un’emergenza sotto il profilo del “ricambio generazionale”. Nel rapporto “URG! -Urge Ricambio Generazionale” del 2009 si legge che “l’Italia è un paese vecchio: si vive più a lungo e si fanno meno figli. Tuttavia, la società italiana sta invecchiando non solo per motivi demografici, ma anche perché il sistema di potere lascia poco spazio alle nuove generazioni. I meccanismi di formazione e di selezione delle élite sono infatti caratterizzati da una bassa capacità di ricambio e da una pronunciata longevità grazie alla pervicacia con la quale la classe dirigente nostrana difende le posizioni acquisite”.
Le conseguenze della gerontocrazia italiana si fanno sentire a vari livelli, con il risultato che la carica di innovazione delle giovani generazioni risulta neutralizzata: una società in cui i giovani hanno poche speranze di riuscire a migliorare le proprie condizioni di vita è una società statica che, in ultima analisi, potrebbe alimentare un conflitto tra generazioni.
E ciò accade a tutti i livelli:
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in ambito lavorativo, l’assunzione di posizioni di rilievo dipende (in gran parte) dall’anzianità aziendale, a prescindere dai livelli di produttività e dalle competenze di ciascuno (alcuni dati: in dieci anni il contributo dei giovani all’interno dei ruoli direttivi è passato dal 9,7% al 6,9% e il numero di giovani imprenditori è passato dal 22% al 15%);
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in politica, il dato non è più incoraggiante: dal 1992, i deputati under35 non hanno mai raggiunto la soglia del 10% con un ovvio deficit democratico in danno della “generazione perduta” (che, quindi, non è adeguatamente rappresentata).
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nell’università, l’età media dei docenti universitari è in continuo aumento ed assomiglia ad una presa in giro il fatto che ricercatori “40enni” vengano definiti giovani.
Appare chiaro che la “generazione perduta”, lungi dal dichiarare guerra debba semmai difendersi dall’attacco che altri le hanno portato: chi l’ha condotta in questa situazione, chi le dice che – al massimo – si può “limitare i danni”, chi la invita (in modo pilatesco) ad andare all’estero perché tanto questo è un “Paese senza speranza” o chi, non volendo farsi da parte, la accusa di immaturità e di mancanza di spirito di sacrificio.
Non è un caso che appoggino la nostra campagna anche tanti genitori che, consapevoli del proprio ruolo, non credono che “#generazioneperduta” sia la difesa di una casta di “attivisti della domenica” (o di una minoranza di viziati e apatici), ma la difesa di tutto il Paese. Affrontare in modo serio e sistematico il problema del ricambio generazionale, serve a tutta l’Italia, specialmente se vogliamo evitare davvero che – in futuro – possano esserci altre generazioni perdute.
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