Articolo scritto insieme a Bruno Saetta
E’ di alcuni giorni fa la vicenda che ha visto protagonista la giornalista Paola Ferrari, presa di mira, durante tutto il periodo degli Europei di calcio 2012, da alcuni utenti del social network Twitter, i quali hanno pesantemente ironizzato sul suo aspetto fisico e sulla sua età, fino al punto da scadere, a parere della Ferrari, in veri e propri insulti, perseguibili, a suo dire, a norma di legge.
La telegiornalista, chiaramente piccata, ha replicato sostenendo di non voler rimanere inerte di fronte a comportamenti del genere, e dichiarando: “…con questo atto voglio dire un no chiaro. Il web non può diventare una bacheca della diffamazione anonima, dell’insinuazione volgare e del razzismo solo perché nel web c’è la libertà di espressione. Non è giusto usare la rete e i social network per insultare le persone, senza la possibilità di un contraddittorio, e questo accade soprattutto con Twitter. Se il web e i blog vogliono giocare un ruolo serio nell’informazione, allora devono comunque attenersi alle regole deontologiche di base e alle norme civili che valgono fuori dalla rete. Nessuno si riunisce pubblicamente per diffamare o insultare qualcun altro o, se lo fa, per lo meno è passibile di denuncia. Ecco, credo allora che la cosa valga anche per Twitter”.
Secondo quanto riportato da giornali e da blog, con una frase volutamente ad effetto, la Ferrari avrebbe, quindi, l’intenzione di “querelare Twitter”!
E’ doveroso premettere che la querela non ci risulta ancora presentata – tutti gli organi di stampa hanno parlato di ‘intenzione’ della Ferrari – come del resto sembra possibile che l’espressione “querelare Twitter” possa essere solo una semplificazione narrativa.
Tenuto conto di questo, appare comunque opportuno effettuare alcune considerazioni di ordine giuridico sulla vicenda, a nostro avviso necessarie per due ordini di motivi: innanzitutto, per verificare se, ed entro quali limiti, sia possibile una querela diretta contro Twitter – ossia contro un social network, anziché contro i suoi utenti; in seconda battuta, perché le dichiarazioni della Ferrari potrebbero fornire un appiglio involontario a favore di alcuni vecchi disegni di legge, momentaneamente accantonati, la cui riviviscenza potrebbe portare conseguenze negative sulla libera comunicazione in rete.
Partiamo dal principio: Twitter è un servizio di social networking e micro blogging, che fornisce agli utenti una pagina personale sulla quale vengono pubblicati i messaggi, generalmente pubblici, propri e dei propri followers – gli utenti che si è deciso di seguire.
Nelle proprie condizioni di servizio, Twitter prevede che responsabile dell’utilizzo del servizio sia solo l’utente: al punto 1, infatti, è esplicitamente riportato che “l’utente sarà responsabile del proprio utilizzo dei Servizi, dei Contenuti postati sui Servizi e di ogni conseguenza derivante da tali azioni. I Contenuti inviati, postati o resi visibili dall’utente saranno visualizzabili da altri utenti dei Servizi e tramite servizi e siti web di terzi…”.
Il concetto viene ribadito al punto 4, laddove è, altresì, specificato che “tutti i Contenuti, postati pubblicamente o trasmessi privatamente, saranno di esclusiva responsabilità del soggetto da cui tali Contenuti hanno avuto origine” e che “Twitter non è tenuto al monitoraggio o al controllo dei Contenuti postati tramite i Servizi e declina ogni responsabilità in merito a tali Contenuti. Qualunque utilizzo di o affidamento nei confronti dei Contenuti o materiali postati tramite i Servizi od ottenuto dall’utente tramite i Servizi, si intende a rischio esclusivo dell’utente”.
Una clausola generale prevista, è bene precisarlo, praticamente da tutti i fornitori di servizi online.
Parte della discussione in rete, scaturita dall’annuncio della Ferrari di voler querelare direttamente il social network, si è incentrata proprio sulla circostanza che Twitter, sulla base dei propri Termini di Servizio – i TOS – sarebbe, quindi, come visto ai punti 1 e 4, esentato da responsabilità.
Il discorso, però, così impostato, è parziale – e parzialmente corretto – perché origina dal presupposto che tutto dipenda dalle condizioni di servizio, quindi dal contratto che Twitter stipula con i suoi utenti. I TOS, infatti, possono essere assimilabili ad un contratto, e vincolano ogni singolo utente di Twitter all’utilizzo del Servizio secondo le modalità e i termini ivi indicati, rispetto ai quali, comunque – e rispetto anche agli utenti che l’hanno presa di mira – la Ferrari sarebbe terza, pur avendo, la stessa, un proprio account sul social.
Quello di cui spesso si omette di parlare è il contesto giuridico di riferimento, ossia l’insieme delle norme che regolano la materia, e che non possono non essere considerate nel rapporto tra Twitter e i suoi utenti: gli stessi TOS esplicitano che “l’utente potrà utilizzare i Servizi esclusivamente in conformità alle presenti Condizioni e a ogni legge, norma e regolamento locale, statale, nazionale e internazionale applicabile”; ed a queste norme, pertanto, sarà necessario rifarsi per rispondere alle domande prima poste.
E’ importante, inoltre, specificare che stiamo sempre parlando di contratti per adesione, ossia contratti nei quali una parte – l’utente – non può esercitare la propria ‘autonomia contrattuale’ – quindi nessun potere di negoziare con la controparte le condizioni del rapporto sostanziale – ma può solo limitarsi ad accettare o rifiutare in toto la sottoscrizione del contratto.
Ma a quali norme stiamo facendo riferimento quando parliamo di ‘contesto giuridico’?
Twitter è un fornitore di spazio – e servizi – web, soggetto, così, all’applicazione del decreto legislativo 70 del 2003, che ha recepito in Italia la direttiva europea eCommerce (2000/31/CE), e che stabilisce i principi essenziali che regolano la responsabilità dei fornitori di servizi online.
Il decreto pone, innanzitutto, una clausola generale che prevede, per tutti i tipi di fornitori di servizi online, l’inesistenza di un obbligo di sorveglianza dei contenuti postati dagli utenti e conservati nei server degli ISP, nonché l’assenza di un obbligo di cercare attivamente fatti e circostanze che indichino la presenza di attività illecite – che impone al fornitore un comportamento meramente passivo in relazione ai contenuti che transitano o vengono memorizzati nei suoi server.
Specificamente, in relazione ad un fornitore di servizi di memorizzazione, un hosting provider, come Twitter – il decreto scinde la responsabilità penale da quella civile.
Per la prima, si richiede al fornitore l’effettiva conoscenza e consapevolezza dell’illiceità dei messaggi, da intendersi in senso rigoroso: occorre, quindi, che il fornitore sia non solo a conoscenza dell’esistenza del messaggio – la qual cosa implicherebbe un controllo continuo dei messaggi inseriti dagli utenti, cioè un monitoraggio, vietato dalle norme dell’Unione europea (CGUE 24/11/11) – ma anche che il fornitore abbia piena consapevolezza dell’illiceità del messaggio. Secondo la giurisprudenza più recente – per ultima Trib. Civ. Firenze ordinanza 25/5/2012 – per valutare se un prestatore abbia effettiva conoscenza dell’illiceità dei messaggi, occorre che un organo competente abbia dichiarato che i dati sono illeciti, oppure che l’autorità giudiziaria ne abbia chiesto la rimozione, per cui non è sufficiente la mera diffida di un privato, fosse anche la presunta parte lesa, “trattandosi”, conclude il giudice, “di prospettazioni unilaterali”. In relazione a questo punto, si ribatte spesso che in realtà i prestatori controllano i contenuti immessi o comunque effettuano delle operazioni su di essi (ad esempio quando su YouTube si realizza la classifica dei video più visti), per cui ne sarebbero automaticamente responsabili; in realtà, sulla base della normativa di cui al decreto e alla direttiva citate, non sorge una responsabilità del prestatore se le operazioni e i controlli da esso svolti sui contenuti sono realizzati con software automatizzati, come solitamente accade.
Detto in breve, il prestatore del servizio non è responsabile, a meno che non sia coinvolto direttamente nel fatto illecito.
La responsabilità civile, invece, richiede la negligenza del prestatore, che si configura nel momento in cui l’autorità giudiziaria od amministrativa avente funzioni di vigilanza richiede la rimozione del contenuto e il prestatore non adempie, oppure nel caso in cui, avuto conoscenza del carattere illecito di un determinato contenuto, il prestatore non ne informi prontamente l’autorità giudiziaria.
Si può, così, evidenziare, leggendo il decreto 70 del 2003, come i TOS di Twitter non siano altro che una riproposizione, semplificata e resa comprensibile all’utente medio, che in genere non ha dimestichezza con la complessità delle norme giuridiche, delle norme della direttiva 31 riproposte dal decreto, che sono poi, in sostanza, norme proprie di quasi tutti gli ordinamenti nazionali, sia in Europa che al di là dell’oceano, e che sanciscono la sostanziale irresponsabilità dell’hosting alle condizioni esplicitate.
Residuerebbe solo il dubbio sulla possibile configurabilità di una responsabilità per rischio d’impresa, in quanto i provider, com’è noto, sono soggetti privati che agiscono nell’esercizio di attività commerciali. Nelle diverse cause intentate contro i fornitori di servizi online, infatti, si è sempre fatto ricorso anche a questo argomento, ipotizzando una responsabilità collegata alla monetizzazione – diretta od indiretta – che il provider fa dei contenuti degli utenti, in conseguenza della quale dovrebbe essere chiamato a risponderne in qualche modo; si resterebbe, comunque, nell’ambito delle ipotesi di illecito civile, e non di illeciti penali, da querela.
Una responsabilità così configurata avrebbe pro e contro: da una parte, consentirebbe al soggetto leso di aver sempre un responsabile da perseguire per il ristoro del danno, e per di più senz’altro capiente; dall’altra, determinerebbe la necessità, da parte del fornitore, di distribuire il relativo costo su tutti gli utenti.
Tale situazione avrebbe anche un ulteriore risvolto, molto più pericoloso: per minimizzare i danni, il fornitore sarebbe indotto a rimuovere contenuti anche soltanto dubbi, con gravi e comprensibili ricadute negative sia per la libertà di espressione dei cittadini – diritto costituzionale – che si potrebbero facilmente veder cancellati contenuti del tutto leciti, ma anche per la stessa libertà di impresa, poiché gli elevati costi conseguenti snaturerebbero lo stesso modello di business dei social – generalmente gratuito, con pubblicità.
Questo è uno dei motivi per i quali sia la legislazione europea – la direttiva eCommerce citata – sia quella statunitense – il DMCA, sezione 512 – prevedono le summenzionate ipotesi di esenzione di responsabilità per i fornitori di servizi online.
Social come testata online?
Un’ultima, breve annotazione sui supposti accostamenti tra social network e testate giornalistiche online, spesso letto in questi giorni, la cui differenza di struttura e di funzioni, infatti, non giustifica l’applicazione della stessa normativa.
Una testata editoriale è tale poiché seleziona i contenuti da pubblicare ed ha uno specifico interesse ad ogni singolo contenuto, e per essa, pertanto, sussiste una responsabilità editoriale; in Italia, come sappiamo, si è testata giornalistica solo tramite iscrizione al Registro tenuto presso il competente Tribunale, iscrizione che consente di individuare un soggetto – ed è questa la chiave di lettura – che sia responsabile delle attività compiute attraverso la testata stessa.
Lo strumento social network, invece, ha un interesse solo generico al singolo contenuto, tra i tanti pubblicati, per cui preferirà, se responsabilizzato secondo il meccanismo di cui sopra, senz’altro eliminarlo.
In tale direzione, infatti, si è anche mossa la giurisprudenza, laddove la Cassazione fin dal 2008 (Cass. 10535/2008) ha sostenuto che i nuovi mezzi di comunicazione non possono essere inclusi in blocco nel concetto di stampa, essendo strumenti con caratteristiche specifiche e differenti, concludendo poi per “la assoluta eterogeneità della telematica rispetto agli altri media, sinora conosciuti e, per quel che qui interessa, rispetto alla stampa” (Cass. 35511/2010). .
Chi risponde dei tweet
Se Twitter, per i motivi suesposti, non può essere considerato responsabile del contenuto dei messaggi pubblicati, di essi non potrà che rispondere l’utente, così come previsto dalla legge e ricordato/ribadito dai TOS; una eventuale responsabilità del social network sarà configurabile solo nei casi sopra evidenziati.
Che fare allora
In caso di commissione di un reato a mezzo social network, sarà opportuno, quindi, rivolgersi all’autorità giudiziaria, sporgendo querela direttamente contro i soggetti che hanno posto in essere il comportamento presunto illecito. Sarà, poi, l’autorità giudiziaria a porre in essere i dovuti accertamenti per stabilire l’identità del soggetto dietro l’account Twitter: nonostante ciò che spesso si sostiene, non è particolarmente complicato – la semplificazione vale per un discorso in linea generale – accertare la reale identità di un soggetto iscritto ad un social; oltretutto, il fornitore di servizi online, ai sensi dell’art. 17 del decreto 70 del 2003, è tenuto a collaborare con l’autorità giudiziaria, ed in particolare a “fornire senza indugio, a richiesta delle autorità competenti, le informazioni in suo possesso che consentano l’identificazione del destinatario dei suoi servizi con cui ha accordi di memorizzazione dei dati, al fine di individuare e prevenire attività illecite”.
Internet come terra di nessuno?
Sfatiamo, allora, il mito del web senza regole, dove si possono commettere le peggiori nefandezze senza pagarne le conseguenze, perché, come abbiamo sinteticamente illustrato, così non è, e già da adesso.
Ma, allora, che senso ha denunciare un social network?
Ovviamente non siamo in grado di stabilire se l’annuncio della giornalista fosse un errore dovuto ad insufficiente conoscenza delle norme attualmente in vigore, o solo una mera semplificazione.
Sta di fatto che, ad una espressa domanda sul punto, la giornalista ha così risposto:
“Perché a me non interessa il singolo insulto e non ce l’ho nemmeno con il singolo utente maleducato. Non l’ho mica presa sul personale. Il problema è che il funzionamento di queste piattaforme non frena certi atteggiamenti”.
E poi, alla successiva domanda: “E con una querela cambierà qualcosa?”, ha risposto: “Spero che questo episodio diventi l’occasione per fare una riflessione sulla rete. E che vengano approvate norme come quella proposta del ministro Severino per la rettifica obbligatoria ai siti”.
Il comma 29 e la proposta di legge ‘Carlucci’ c- 2195
Indipendentemente dalle ragioni della Ferrari, appare evidente che iniziative di questo tipo, in un modo o nell’altro, finiscono per costituire terreno fertile per la rivivescenza di alcuni disegni di legge, periodicamente proposti con l’unico scopo di limitare la libertà di espressione dei cittadini in rete, mettendo un bavaglio all’intera rete con la giustificazione ufficiale di impedire – a pochi – la commissione di determinati reati.
Stiamo parlando di iniziative come quella dell’On. Carlucci, il cui intento era quello di impedire l’anonimato in rete; oppure la riforma citata dalla Ferrari, il ddl ‘Severino’ , una riproposizione del vecchio progetto di riforma delle intercettazioni, che contiene al suo interno il contestatissimo comma 29 – ora comma 25 – con l’obbligo di rettifica per tutti i siti web.
Pur senza analizzare, in questa sede, l’istituto della rettifica, occorre ricordare che, se approvato, il comma in oggetto estenderebbe l’obbligo di rettifica previsto per giornali e tv dall’art. 8 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 – introdotto per fare da contraltare ai privilegi propri dei media unidirezionali (principalmente l’insequestrabilità del giornale) – anche a tutti i siti web, dal blog di ricette della nonna ai siti più professionali, che tuttavia non costituiscono ‘stampa’ ai sensi di legge, e per i quali siti non vi è alcuna posizione di privilegio da bilanciare.
La rettifica, pertanto, consentirebbe a qualunque persona citata in una notizia, anche ampiamente documentata, di contrapporre la propria personalissima ed anche eventualmente falsa “verità” alla notizia pubblicata, contrapposizione che, in una rincorsa di smentite e contro smentite, finirebbe per relegare l’informazione in rete nella categoria della mera opinione o del gossip, con evidente vantaggio per i media tradizionali, tv e giornali, ai quali i cittadini semplici non hanno facilità di accesso.
Vogliamo tranquillizzare Paola Ferrari: le norme per tutelarsi in rete ci sono.
E’ possibile, come abbiamo visto, nella maggioranza dei casi risalire all’identità dell’utente, se apparentemente anonimo, e, spesso, non necessario, in quanto gli utenti sono registrati con nome e cognome, ed è possibile che anche nel caso considerato i presunti diffamatori lo fossero.
Quello che il web non fa – né, tantomeno, lo fanno le norme – è proteggere dalla volgarità e dal cattivo gusto: in questo caso, l’unico filtro è quello che dovrebbe utilizzare chi scrive, unito al filtro dell’interprete, di chi legge, alla sua personale percezione.
Ma non parliamo di un filtro giuridico; parliamo piuttosto di un principio di responsabilità che dovrebbe guidare le azioni offline e online, la cui mancanza, ad ogni modo, non deve e non può giustificare una limitazione di quella libertà di espressione che, per fortuna, non esiste solo nel web.
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