Così, in questi giorni, è tornata come notizia di cronaca all’ordine del giorno una definizione che da tempo non si udiva più, trattativa Stato – mafia. Una definizione che identifica un procedimento processuale che ormai accompagna la storia italiana da quasi vent’anni ed indaga sull’accertamento di una ipotetica, ma neanche troppo, trattativa fra gli uomini di legge dello Stato e quelli affiliati alla cupola, a Cosa Nostra.
E’ la storia di un recente passato che rivive prepotente sulle pagine dell’attualità, è la storia sporca di sangue e polvere da sparo di anni difficili, quelli all’inizio degli anni 90, che sono passati alla storia con il poco fantasioso nome: “le bombe del ’92 e del ’93”, per etichettare la serie di sanguinosi attentati che fra il 1992 e il 1993 costellarono la vita politica italiana, inficiandola a tal punto da costringere lo Stato a scendere a patti con un altro stato, quello mafioso. Inaugurò quella stagione di sangue l’omicidio di Salvo Lima, era il 12 marzo del 1992 e fino al 31 ottobre del 1993, data del fallito attentato allo stadio Olimpico, si susseguirono altri 7 attentati, spesso tramutati in vere e proprie stragi, fra le quali si ricordano Capaci e via D’amelio, dove persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, oltre alcuni membri delle rispettive scorte.
Quell’ondata di violenza inaudita, che colpiva in modo così deliberato in Italia per la prima volta, altro non era se non la risposta di Cosa Nostra al Maxiprocesso del 1986. Tenutosi nell’aula bunker di Palermo è forse, a tutt’oggi, il processo che maggiormente ha segnato la lotta al crimine organizzato nel nostro paese; furono condannate 360 persone e contestualmente fu attivata la legge 41 bis, ossia quelle che prevede il regime di carcere duro per i reati di stampo mafioso. Il successo degli organi di stato fu indubitabile, ma se una battaglia era stata vinta, la guerra a Cosa Nostra era ancora lontana dal finire, tanto che si ebbe la terribile risposta della cupola che bagnò col sangue chi aveva sferzato i colpi più duri alla propria organizzazione.
Oggi sono trascorsi vent’anni dalla morte di due dei principali artefici di quella lotta alla malavita, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, scomparivano rispettivamente il 23 maggio 1992 nella strage di Capaci e il 19 luglio dello stesso anno nella strage di Via D’Amelio. Furono due episodi che scossero profondamente l’0pinione pubblica, soprattutto la strage di Capaci; un tunnel scavato sotto l’autostrada e riempito con circa 500kg di tritolo, il risultato fu spaventoso, una porzione di autostrada polverizzata, come se all’improvviso si aprisse un ingresso privilegiato sull’inferno, le macchine sprofondate fra calcinacci e lingue di fuoco, divenute praticamente tizzoni incandescenti irriconoscibili. Le immagini furono visibili a tutti, l’orrore e lo scempio furono il sentire comune di quei giorni di sgomento che sarebbero durati per oltre un anno e che nell’estate avrebbero conosciuto una nuova impennata, l’esecuzione di Paolo Borsellino, il collega e amico di Falcone, che come lui ha pagato con la vita il suo accanimento alla mafia.
E’ in questo terreno denso di ombre, di lacrime, di pugni chiusi e dentri stretti, che affonda le radici un processo controverso e delicato come quello sulla trattativa Stato – mafia. Per porre fine a quella escalation di violenza e terrore alcuni uomini di legge, appartenenti ad organi dello Stato, intavolarono trattative, più o meno lecite, con figure di spicco dei clan mafiosi; in realtà l’interlocutore privilegiato era uno solo, il boss dei boss Vito Ciancimino. La trattativa era molto semplice e lineare, lo stato chiedeva la sospensione degli attentati così come la mafia pretendeva un ammorbidimento di pene, provvedimenti e regime carcerario.
Il processo non è ancora giunto al suo termine ma ormai è compravato che la “trattativa” ci fu e coinvolse il ROS, il reparto speciale dei carabinieri, nella persona dell’ex colonnello Mario Mori, ma non solo, sono numerosi i politici che sembrano coinvolti nel dialogo stretto con i boss mafiosi per collaborare, a partire da Calogero Mannino, passando per Nicola Mancino, fino ad arrivare all’odierno senatore a vita Giulio Andreotti. Dunque nomi illustri della politica italiana, soprattutto l’ultimo, che rischiano di avere nel loro curriculum l’onta del reato di favoreggiamento o associazione mafiosa. Inutile saltare alle conclusioni, è un processo ventennale e come tale andrà valutato solo al suo termine, per ora ci basterà usarlo come spunto per rendere onore alla memoria ma ancora di più al coraggio e all’operato di tutte quelle persone, come Falcone e Borsellino, che hanno vissuto la loro vita dedicandola alla lotta contro Cosa Nostra e ai suoi meccanismi.
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