Il Pacchetto Treu, cioè quegli interventi normativi fatti per svecchiare (per la prima volta) il nostro mercato del lavoro, risalgono al 1995, scritti per il Governo Dini, la cui afferenza a qualsivoglia schieramento ideologico è difficile da dimostrare. Poco meno di 10 anni fa il nostro Paese ha vissuto un altro momento topico, con l’approvazione, nel 2002, della Legge 30 (legge-delega) e con l’emanazione del famosissimo D.lgs 276/03, altrimenti detto Legge Biagi. Come è noto il pacchetto Treu aveva investito l’art. 409 comma 3 del c.p.c. della responsabilità di fare da via di ingresso nel mercato del lavoro, oppure di quella di dare un nome a tutti i rapporti di lavoro di bassa qualità.
Una norma procedurale non può definire la sostanza di un’obbligazione. Cosa che fece, invece, la Legge Biagi nel 2003, quando sostanziò il lavoro che non era a tempo indeterminato di regole che ne assicurassero la forza, soprattutto dando alla “collaborazione coordinata e continuativa” del c.p.c. una dimensione sostanziale nella quale tanto i prestatori che i datori di lavoro potessero inquadrare un rapporto di lavoro, che sarebbe stato, altrimenti, privo di direzioni ed avrebbe continuato a lasciare nell’indeterminatezza migliaia di prestazioni lavorative.
Le intenzioni, si sa, non qualificano gli effetti di una legge, non sono sufficienti, ed allora proprio il contratto a progetto (art. 61 e ss. della Legge Biagi) è stato utilizzato in maniera distorta, facendo sì che venissero assunti con contratto a progetto lavoratori che nulla avevano a che fare con il risultato richiesto dalla legge, già nella sua prima versione, per definire la collaborazione a progetto.
La riforma Fornero, L. 92/2012, al comma 23 del suo articolo 1, interviene proprio per dipanare tutto il fumus mali iuris che la debolezza contrattuale individuale dei prestatori – ed a volte la malafede dei datori – aveva creato. Adesso non sarà più possibile scrivere con vaghezza (a volte si scriveva nel contratto solo l’oggetto sociale della società datrice) il progetto della collaborazione – melius: il risultato finale – al quale il prestatore deve arrivare per definire esaurita la sua missione contrattuale.
Molta attenzione viene prestata, però, a ricondurre il rapporto di lavoro nell’alveo della diligenza, visto che, tanto la retribuzione della novellata obbligazione a progetto che quella delle altre prestazioni di lavoro rese con partita IVA, è stata caricata di regole proprie dei rapporti di diligenza (orario di lavoro, retribuzione), cosa che non impiegherà troppo tempo per essere tradotta, nella fattualità dei contratti individuali, come la simulazione per nascondere rapporti di struttura diversa e meno autonomi rispetto a ciò che era contenuto già nella versione originaria della Legge Biagi.
È il comma 24 della Riforma Fornero a chiarire, a scanso di equivoci, che “l’individuazione di uno specifico progetto costituisce elemento essenziale di validità del rapporto” di lavoro. In parole povere, viene richiesto ai datori di lavoro di definire con precisione lo scopo (il risultato finale) a cui devono tendere i collaboratori a progetto nella conduzione del proprio rapporto di lavoro. Questa norma, appare come il primo timido affacciarsi, nel nostro diritto, di un processo atto a creare una obbligazione di lavoro di risultato, tenuto conto del fatto che le “fasi di programma” che menzionava l’articolo 61 della legge Biagi, forse per non generare la confusione che si era riscontrata nei contratti a progetto per mansioni di sportellista, sono state eliminate per lasciare solo il progetto specifico ed il risultato finale come elementi essenziali del contratto. Il lato aspro di queste due norme è, invece, quello di lasciare ancora intatto il tema di cui si interessa con parole molto chiare, trattando le obbligazioni che si distinguono nella maniera stessa nella quale Marco Biagi le aveva lasciate (pur determinando l’insorgere del dubbio, sospendendo, cioè, il giudizio in merito alla dicotomia tra lavoro per un risultato e lavoro secondo diligenza). I commentatori sono stati sicuri, infatti, della valenza risultista della legge che si stava discutendo, fino a quando la discussione stessa non ha generato la teoria della retribuzione meritoria, per timore che il prestatore individuale potesse trovarsi in posizione di soggezione rispetto al datore. Teoria che, di fatto, ha portato ad imporre un corrispettivo basato sull’ orario di lavoro e non sul risultato finale conseguito. Anche il Governo Berlusconi era stato cauto sulla materia, visto che, nel D.L. 135/2011, all’articolo 8 lett. e), aveva invitato la contrattazione collettiva a segnare i bordi entro i quali la contrattazione individuale a progetto dovesse muoversi. La speranza non taciuta era che la contrattazione di prossimità inducesse a chiarire i caratteri ontologici della contrattazione a progetto.
Ci si trova in una fase storica, non solo italiana, in cui il c.d. civil law deve distinguere se nell’obbligazione di lavoro possa essere considerato, oltre alle mansioni, che caratterizzano i rapporti di lavoro di diligenza, anche un risultato che il prestatore possa conseguire, atteso che il diritto civile francese ha messo in un testo normativo sia le obbligazioni di mezzi che quelle di risultato (aggiungendovi anche l’obbligazione di garanzia, da noi rimasta finora solo nella dottrina di alcuni autori). La nostra giurisprudenza ha dovuto, giusto in questi tempi, sanzionare un cardiochirurgo che eseguiva, in un’obbligazione di diligenza, (come deve per forza essere quella del medico che non può sapere se dalla prescrizione o dalla esecuzione di una cura possa giungere il risultato della guarigione), grazie ad una clausola premiale del proprio rapporto di lavoro con la clinica, gli interventi sul cuore secondo una retribuzione che molto aveva in comune con il cottimo.
Il tema del risultato del rapporto di lavoro viene al momento assorbito tutto nella parte di campo che contraddistingue le obbligazioni di mezzi (o,come Mengoni le chiamava, di diligenza) visto che, storicamente, la prestazione di lavoro, salvo eccezioni (come quella del tassista proprietario), è sempre stata inquadrata nei rapporti di diligenza. Prove dalla esistenza di un processo tutto ancora da definire è quanto viene chiarito subito dopo nel testo normativo: queste nuove regole non intaccano i rapporti di collaborazione a progetto sorti prima dell’entrata in vigore del testo normativo in questione (art. 1, c. 25), a differenza delle Legge Biagi che, invece, modificava ex lege tutte le collaborazioni coordinate e continuative al momento esistenti, quasi a statuire che questo contratto a progetto è appunto un nuovo e diverso contratto a progetto.
La stagione che comincia per il diritto del lavoro, non solo per ciò che recitano le norme analizzate, ma per tutto il resto della Riforma Fornero, è una stagione di riflessione profondissima sulla rescindibilità (più) leggera del rapporto di lavoro, per vedere se è vero che l’economia e la produttività dei lavoratori migliorerebbero nella maggiore leggerezza dei gravami del licenziamento, sulla sostanza dell’obbligazione da Marco Biagi pensata e chiamata “contratto a progetto”, sulla tenuta del nuovo sistema di ammortizzatori sociali, sulla ulteriore maggiore rapidità che viene assicurata al processo del lavoro, sul modo principe di ingresso nel mercato del lavoro, che dovrebbe quello del contratto di apprendistato. Questo carotaggio della riforma Fornero basti per comprendere la provvisorietà che lo stesso Ministro ha dato, attraverso dichiarazioni ai mass-media, a questa legge; provvisorietà che può essere spiegata, da un lato, come si ritiene, nella necessità di pensare la natura del lavoro nel nostro Paese, reso ottuso da anni di ideologia analitica che ha trasformato in flaccida qualunque disciplina, e dall’altro, nella stima che sembra trasparire da tutti gli atti fortissimi compiuti dal Governo in carica per superare una crisi che, almeno per l’Italia, appare più grave e lunga di quanto non appaia per gli altri Paesi europei e del mondo.
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