L’imprenditrice, infatti, aveva fatto installare nella propria sede di lavoro, previa sottoscrizione di un’autorizzazione, quattro telecamere volte a realizzare la videosorveglianza aziendale, due delle quali inquadravano direttamente alcune postazioni di lavoro fisse occupate dai dipendenti.
Sul punto, occorre ricordare che l’art. 4, nel secondo comma, precisa che impianti di controllo in ambito lavorativo possono essere installati soltanto “previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in mancanza di queste con la commissione interna”.
Ciò posto, non può essere ignorato il dato obiettivo, ed indiscusso, che nel caso di specie, era stato acquisito l’assenso di tutti i dipendenti attraverso la sottoscrizione di un documento esplicito.
Orbene, se è vero che non si trattava né di autorizzazione della RSU né di quella di una “commissione interna”, logica vuole che il più contenga il meno, sicché non può essere negata validità ad un consenso chiaro ed espresso proveniente dalla totalità dei lavoratori e non soltanto da una loro rappresentanza.
Dunque, mentre fino a qualche tempo fa la giurisprudenza di legittimità aveva sempre condannato questi controlli troppo invadenti da parte dell’azienda chiedendo come requisito l’accordo con le RSU, ora è sufficiente la sola firma del lavoratore.
Sulla base di questa argomentazione, quindi, la sentenza impugnata dinanzi alla Corte risulta censurabile “per non avere interpretato correttamente la norma sotto il profilo oggettivo ed analoga censura può essere mossa anche sotto il profilo psichico”: i lavoratori erano consapevoli della presenza delle telecamere e tale consapevolezza è stata provata non solo dal documento da loro sottoscritto, bensì anche dal fatto che nei locali aziendali erano stati affissi dei cartelli che segnalavano la presenza del sistema di video sorveglianza.
Risulta, dunque, utile ribadire il principio giurisprudenziale secondo il quale “l’esistenza di un consenso validamente prestato da parte di chi sia titolare del bene protetto, esclude la integrazione dell’illecito”.
Alla luce di quanto detto sopra, i giudici ermellini concludono che “il richiamo nella decisione impugnata del principio giurisprudenziale appena citato risulta non pertinente e legittima il convincimento che il giudice di merito abbia dato della norma una interpretazione eccessivamente formale e meccanicistica limitandosi a constatare l’assenza del consenso delle RSU o di una commissione interna ed affermando, pertanto, l’equazione che ciò dava automaticamente luogo alla infrazione contestata.
In tal modo, però egli ha ignorato il dato obiettivo (peraltro di provenienza non sospetta, visto che sono stati gli stessi ispettori del lavoro a riportarlo) che l’odierna ricorrente aveva acquisito il consenso di tutti i dipendenti”.
Qui la sentenza n. 22611/2012 della Cassazione
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