La Suprema Corte ha inoltre precisato che “sulla scorta di questi presupposti è pertanto è corretto affermare che non si può prescindere dalla valutazione obiettiva di una concreta pericolosità, ancorché su base indiziaria, ma è altrettanto vero che, accertato definitivamente che il soggetto che direttamente o indirettamente dispone dei “beni”, ha un reddito o un’attività economica sproporzionati al reddito dichiarato e si ha giustificato motivo di ritenere quindi, anche a seguito delle indagini effettuate, che gli stessi siano frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego, la confisca diventa obbligatoria”.
Secondo i giudici di legittimità, dunque, il venir meno, per eventi successivi, dell’accertata pericolosità sociale dell’indagato, non ha influenza alcuna in ordine alla confisca del patrimonio a lui riconducibile e ritenuto il frutto o il reimpiego delle sue attività illecite.
Tale misura, pur essendo applicata, per volontà del legislatore, nel procedimento di prevenzione, non ha natura di “prevenzione”, ma costituisce una sanzione amministrativa diretta a sottrarre in via definitiva i beni di provenienza illecita alla disponibilità dell’indiziato di appartenenza ad associazione di stampo mafioso.
Conclude la Corte, “la ratio della confisca, invero, comprende ma eccede quella delle misure di prevenzione in senso propri, mirando a sottrarre definitivamente i beni di provenienza illecita al circuito economico di origine per inserirli in altro esente da condizionamenti criminali, e dunque si proietta al di là dell’esigenza di prevenzione nei confronti di determinate persone pericolose per sorreggere la misura stessa oltre il perdurare della pericolosità del soggetto al cui patrimonio è applicata.”
Quindi una volta accertati i presupposti di pericolosità qualificata del soggetto e di indimostrata legittima provenienza dei beni a lui riconducibili, l’applicazione della confisca diviene obbligatoria senza che alcun effetto risolutivo possa ricollegarsi al venir meno del prevenuto ovvero della sua pericolosità.
Qui il testo integrale della sentenza n. 21894/2012 della Corte di Cassazione
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