La discussione, in queste ore in corso a Palazzo Madama, è stata incentrata in particolare sul testo di sintesi licenziato favorevolmente dalla Commissione Affari Istituzionali del Senato.
Il testo approvato dalla Commissione nella seduta del 29 maggio 2012 modificherebbe la Costituzione per i seguenti profili:
– abbassamento dell’età richiesta per l’elettorato passivo nonché, nell’elezione del Senato, anche per l’elettorato attivo;
– riduzione del numero dei parlamentari;
– trasformazione del bicameralismo da paritario a differenziato, con esclusivo riguardo al procedimento legislativo;
– raccordo all’interno del Senato con le autonomie territoriali regionali;
– ampliamento dei poteri del Governo nel procedimento legislativo;
– rafforzamento del ruolo del Presidente del Consiglio dei ministri, quale unico destinatario della fiducia parlamentare di ambedue le Camere e quale titolare della proposta di revoca dei ministri nonché della proposta di scioglimento delle Camere, o di una sola di esse, in caso di denegata fiducia;
– introduzione della sfiducia costruttiva;
– introduzione di disposizioni prefiguranti in qualche misura uno ‘Statuto delle opposizioni’.
Sono interessati dalle modifiche gli articoli 56, 57, 58, 64, 69, 70, 72, 74, 75, 92, 94, 126 della Costituzione
Vediamo brevemente più in dettaglio le modifiche proposte.
Riduzione del numero dei parlamentari
– Il numero dei deputati passerebbe da 630 (dodici dei quali eletti nella circoscrizione estero) a 508, otto dei quali eletti nella circoscrizione Estero.
– Sono eleggibili a deputati tutti gli elettori che nel giorno delle elezioni hanno compiuto i ventuno anni di età (non più venticinque come oggi previsto).
– Il numero dei senatori elettivi passerebbe da 315, sei dei quali eletti nella circoscrizione Estero, a 254, quattro dei quali eletti nella circoscrizione Estero.
– Nessun limite per l’elettorato attivo per il Senato (oggi occorre avere compiuto 25 anni).
– Sono eleggibili a senatori gli elettori che hanno compiuto il trentacinquesimo anno (non più il quarantesimo come oggi previsto).
Modifiche al procedimento legislativo
Il disegno di legge rende eventuale, con alcune eccezioni, il bicameralismo paritario, con esclusivo riguardo all’esercizio della funzione legislativa.
Il nuovo testo dell’art. 72 distingue due forme di esercizio della funzione legislativa:
- “collettiva”, quando l’esame di entrambe le Camere è necessario;
- altra (non specificamente denominata), in cui l’esame di una delle due Camere è eventuale. Tale distinzione opera secondo un criterio materiale nel modo che segue.
La forma collettiva – per la quale dunque permane il bicameralismo paritario perfetto quale oggi vigente – è prescritta per i disegni di legge:
– in materia costituzionale ed elettorale;
– concernenti le prerogative e le funzioni degli organi costituzionali e dei rispettivi componenti;
– per i quali la Costituzione prescrive una maggioranza speciale di approvazione;
Si tratta – oltre alle leggi di revisione della Costituzione e alle altre leggi costituzionali, peraltro già ricomprese nell’elencazione – di:
– amnistia e indulto (articolo 79 della Costituzione);
– legge di sistema in materia di contabilità e finanza pubblica (articolo 81, sesto comma);
– conferimento di forme e condizioni particolari di autonomia alle Regioni con ordinamento comune (articolo 116, terzo comma).
– di delegazione legislativa;
– di conversione di decreti-legge;
– di approvazione di bilanci e consuntivi;
– di iniziativa governativa, che, al fine di garantire l’unità giuridica o economica della Repubblica e nel rispetto dei principi di leale collaborazione e sussidiarietà, intervengono nelle materie attribuite alla potestà legislativa regionale.
Non è inclusa nel predetto elenco l’autorizzazione a ratificare trattati internazionali, talché non vi è piena coincidenza con la riserva d’Assemblea quale attualmente vigente ex art. 72, quarto comma.
Per tutti gli altri disegni di legge, l’esame della seconda Camera è solo eventuale (bicameralismo ‘eventuale’).
Insieme alla distinzione fra bicameralismo necessario ed ‘eventuale’, il nuovo articolo 72 detta criteri volti a individuare in quale delle due Camere l’iter debba avere inizio, criteri che in parte si connettono alla predetta distinzione.
In tal modo viene superato il sistema attuale, nel quale è sostanzialmente indifferente quale Camera inizi l’iter.
Infatti il terzo comma dispone che l’esame dei disegni di legge abbia inizio:
- nel caso di bicameralismo necessario, presso la Camera ove sono presentati (dunque al Senato le proposte di senatori, alla Camera quelle dei deputati, e le altre – del Governo, del Cnel, delle Regioni, di iniziativa popolare – nella Camera prescelta dai proponenti);
- al Senato solo se vertano su materie:
- prevalentemente di legislazione concorrente; prevalentemente ricadenti nell’ambito di applicazione dell’articolo 119 della Costituzione;
- ricadenti in una riserva di «legge della Repubblica»;
- alla Camera tutte le altre.
L’assegnazione dei singoli disegni di legge all’una o all’altra Camera in applicazione della predetta regola è rimessa dal nuovo art. 72, quarto comma, a una intesa fra i Presidenti dei due rami, che dovrà essere disciplinata dai rispettivi Regolamenti e che la proposta espressamente definisce “insindacabile in ogni sede”.
Con tale formulazione si vorrebbe intendere che questa decisione non sia rilevabile come vizio in procedendo, nel sindacato di legittimità costituzionale di una legge infine approvata.
Per quanto riguarda lo svolgimento dell’iter, nei casi di bicameralismo ‘eventuale’, l’esame presso la Camera che non sia prima assegnataria diviene eventuale e con termini prestabiliti.
Obbligatoria è la trasmissione del disegno di legge approvato dalla Camera prima assegnataria all’altra Camera.
Quest’ultima discute il disegno di legge solo se ne deliberi, entro quindici giorni dalla trasmissione, l’esame.
Non è previsto un quorum per tale deliberazione; è invece previsto per la previa richiesta di riesame: un terzo dei componenti.
Il riesame – automatico, senza previa deliberazione sulla sua richiesta – si ha, inoltre, qualora lo richieda il Governo.
Ove l’esame sia deliberato, o richiesto dal Governo, questa seconda Camera ha a disposizione i seguenti trenta giorni per approvare o respingere il disegno di legge.
Qualora non si concluda l’iter entro quel termine, il disegno di legge si intende approvato.
Ove l’esame si concluda con una determinazione modificativa, il disegno di legge torna alla prima Camera assegnataria.
Per questa infine valgono i medesimi termini – i 15 giorni per la richiesta di esame, con il relativo quorum di un terzo dei richiedenti, come i 30 giorni per la deliberazione finale – valevoli già per l’altra Camera.
In assenza di finale deliberazione nel termine prescritto, il testo si intende approvato quale licenziato dall’altra Camera.
In caso invece di approvazione con modifiche, il disegno di legge prosegue la sua navette, con applicazione dei medesimi termini, per la richiesta di esame e la finale deliberazione, e quorum, per la richiesta di esame, già valevoli per il precedente esame.
Questo, finché non si raggiunga tra le due Camere una deliberazione, o un ‘tacito assenso’, quale mancata deliberazione finale entro il termine, convergente su un medesimo testo.
Il disegno di legge varato dalla Commissione Affari costituzionali demanda ai regolamenti parlamentari la disciplina di un esame dei disegni di legge da parte di una commissione ‘mista’, composta in pari numero, e seconda la proporzione dei gruppi parlamentari, di Senatori e Deputati.
Reca inoltre una duplice modificazione della riserva d’Assemblea, quale oggi vigente.
Essa è estesa ai disegni di legge: di conversione dei decreti legge e di adempimento di obblighi comunitari.
Il procedimento legislativo come sopra delineato – bicamerale paritario ovvero differenziato – si applica anche per i disegni di legge oggetto di rinvio da parte del Presidente della Repubblica.
Rafforzamento del Presidente del Consiglio dei ministri
E’ prevista la proposta, da parte del Presidente del Consiglio, non più solo della nomina ma anche della revoca dei ministri.
Si tratta di proposta: l’atto è del Presidente della Repubblica.
Inoltre, diviene solo il Presidente del Consiglio, non il Governo come organo collegiale, il titolare del rapporto fiduciario con il Parlamento.
Peraltro, la fiducia gli è votata – dalle due Camere – dopo la formazione del Governo.
E’ da notare come lo scioglimento, che permane formalmente atto del Presidente della Repubblica, possa, secondo la proposta in esame, esser disposto anche per una sola Camera, confermando previsione contenuta nell’articolo 88, primo comma della Costituzione vigente.
Potere di proposta di nomina e revoca dei ministri da un lato, titolarità della fiducia dall’altro, in capo al Presidente del Consiglio, parrebbero mettere in dubbio la sfiducia individuale nei confronti di singoli ministri, attualmente consentita.
Sfiducia costruttiva
Il Parlamento può assumere esso stesso l’iniziativa di una verifica della relazione fiduciaria, con lo strumento della mozione di sfiducia.
La mozione di sfiducia è previsto debba contenere l’indicazione del nuovo Presidente del Consigli.
La proposta eleva il quorum di sottoscrizione della mozione di sfiducia, ai fini della presentazione: esso diviene, da un decimo dei componenti della singola Camera di presentazione, un terzo dei componenti della Camera e dei componenti del Senato.
L’iniziativa deve dunque esser congiunta, da parte di una significativa minoranza presente entro ambedue le Camere.
Ed è elevato il quorum di approvazione: esso diviene, da quello ordinario per le votazioni, da effettuarsi ad appello nominale secondo previsione dell’articolo 94, secondo comma della Costituzione, la maggioranza assoluta dei componenti della Camera e dei componenti del Senato.
La mozione di sfiducia è deliberata dal Parlamento in seduta comune.
Esso pare agire come riunione di due organi, ciascuno dei quali mantiene il proprio quorum di approvazione, più che come organo collegiale terzo, come è, invece, per le altre funzioni costituzionalmente attribuitegli.
L’approvazione della mozione di sfiducia costruttiva preclude lo scioglimento.
Analogo effetto consegue l’indicazione di un nuovo Presidente del Consiglio nei ventuno giorni successivi alla richiesta di scioglimento.
Il ‘designato’ – dal Parlamento mediante la mozione di sfiducia costruttiva o la indicazione di un nuovo Presidente – è nominato dal Presidente della Repubblica ed entra nel pieno delle sue funzioni, intendendosi la fiducia parlamentare già accordatagli mediante lo strumento di ‘designazione’.
L’appello dei costituzionalisti
Dodici giuristi hanno recentemente lanciato un appello a tutti i parlamentari perché rinuncino a portare avanti una modifica tanto pericolosa del sistema costituzionale.
“La Costituzione – affermano – non può essere profondamente mutata senza una vera discussione pubblica, senza che i cittadini adeguatamente informati possano far sentire la loro voce.
E´ inaccettabile che la richiesta di partecipazione, così forte ed evidente proprio in questo momento, venga ignorata proprio quando si vuole addirittura modificare l´intero edificio costituzionale.
I cittadini, che negli ultimi tempi sono tornati a guardare con fiducia alla Costituzione, non possono essere messi di fronte a fatti compiuti.
Offrendo ad una opinione pubblica offesa da prevaricazioni e prepotenze un´esigua riduzione del numero dei parlamentari, si vuol cogliere l´occasione per alterare pericolosamente l´assetto dei poteri istituzionali (la riduzione dei parlamentari può essere affidata ad una legge costituzionale a sé stante, senza stravolgere la Costituzione).
Viene attribuita una posizione assolutamente centrale al Presidente del Consiglio, mortificando il Parlamento e ridimensionando in maniera radicale la funzione di garanzia del Presidente della Repubblica.
Il Parlamento è conculcato nelle sue stesse funzioni e nella sua libertà, fino a poter essere sciolto dallo stesso Presidente del Consiglio, nel caso votasse contro una sua legge sul quale fosse stata posta e negata la fiducia.
L´intreccio tra sfiducia costruttiva e potere del Presidente del Consiglio di chiedere lo scioglimento delle Camere attribuisce a quest´ultimo un improprio strumento di pressione e rende marginale il ruolo del Presidente della Repubblica.
I problemi del bicameralismo vengono aggravati, il procedimento legislativo complicato.
Gli equilibri costituzionali sono profondamente alterati, cancellando garanzie e bilanciamenti propri di un sistema democratico. E ora si propone di passare da una repubblica parlamentare ad una presidenziale, di mutare dunque la stessa forma di governo, addirittura con un emendamento che sarà presentato in aula all´ultimo momento”.
L’appello è firmato da autorevoli giuristi: Umberto Allegretti, Gaetano Azzariti, Lorenza Carlassare, Luigi Ferrajoli, Gianni Ferrara, Domenico Gallo, Raniero La Valle, Alessandro Pace, Alessandro Pizzorusso, Eligio Resta, Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky
Valutazioni critiche
La riforma di cui si discute viene presentata come la tanto attesa riduzione del numero dei parlamentari.
In realtà, a fronte di una abbastanza limitata riduzione del numero – da 630 a 508 deputati e da 315 a 254 senatori – e al di là della strana individuazione del numero (ad esempio perché 508 e non 500 o meglio 400 come già votato nella riforma del 2006?), si introducono modifiche significative ma poco conosciute e approfondite modifiche al nostro sistema di governo e di rapporto tra i poteri costituzionali.
Una riforma di tale portata non può essere adottata, ancora una volta sull’onda dell’emergenza economica o della spinta mediatica, senza il coinvolgimento dell’opinione pubblica, così come già accaduto in questa legislatura con l’introduzione del pareggio di bilancio nella Costituzione.
Desta grande preoccupazione per le conseguenze giuridiche che ne possono derivare la distribuzione delle competenze legislative tra i due rami del Parlamento a seconda che il disegno di legge riguardi le materie di competenza esclusiva o concorrente dello Stato.
Non se ne comprende pienamente la ratio.
Le innovazioni che si intenderebbero apportare al procedimento legislativo allarmano per la ridondanza che le caratterizza.
Si fa fatica anche a descriverli!
Il criterio della ripartizione delle competenze lascia molto perplessi sulla effettiva operatività.
Dovrebbe spettare al Senato ad esempio l’esame dei disegni di legge che riguardano prevalentemente le materie di cui all’articolo 117, terzo comma, e all’articolo 119 della Costituzione.
Al riguardo basta considerare le difficoltà interpretative seguite alla riforma del titolo V del 2001 e la copiosa giurisprudenza della Corte Costituzionale nella definizione degli ambiti di competenza statale e regionale per comprendere quali difficoltà applicative deriverebbero da tale impostazione.
Ma perché anziché attribuire a ciascuna delle due Camere una preminenza, e l’ultima parola su diverse categorie di leggi, difficilmente distinguibili fra loro, e quindi su materie spesso dagli incerti confini, come dimostra l’abbondante contenzioso Stato-Regioni, non ci si limita a rendere facoltativo, dopo l’approvazione di una Camera, l’esame da parte dell’altra Camera, su richiesta di una frazione di questa?
Si avrebbe un risultato di snellimento senza dar luogo a disarmonie o a infinite controversie.
La proposta di riforma prevede che “i disegni di legge sono assegnati a una delle due Camere, con decisione non sindacabile in alcuna sede, dai Presidenti delle Camere d’intesa tra loro secondo le norme della Costituzione e dei rispettivi regolamenti”.
Ed inoltre: “I disegni di legge approvati da una Camera sono trasmessi all’altra Camera e, salvo il caso di esercizio collettivo della funzione legislativa, sono da questa esaminati se, entro quindici giorni dalla trasmissione, ne è deliberato il riesame su proposta di un terzo dei suoi componenti. Il riesame ha luogo anche su richiesta del Governo”.
Ciò significa che, in caso di dissenso parziale o totale della Camera “del riesame”, la decisione ultima sulla approvazione di una legge spetterebbe a quella delle due Camere che dovrebbe essere scelta con “decisione insindacabile” dai due Presidenti in base alla prevalenza del suo contenuto, se di competenza esclusiva o concorrente dello stato.
Tale insindacabilità è da ritenere assoluta? Non è ammissibile neanche un ricorso per conflitto di attribuzione dinnanzi alla Corte Costituzionale?
A quale dei due rami del Parlamento vanno affidati i progetti di legge su materie non inquadrabili nell’elencazione costituzionale?
A quale delle due Camere si attribuiranno i progetti di legge “riguardanti” gli interessi unitari dell’ordinamento?
Altra previsione che lascia molti dubbi: “Il Governo può chiedere che un disegno di legge sia iscritto con priorità all’ordine del giorno della Camera che lo esamina e sottoposto alla votazione finale entro un termine determinato. Decorso il termine, il testo proposto o accolto dal Governo, su sua richiesta, è messo in votazione senza modifiche, articolo per articolo e con votazione finale”.
Come emerge chiaramente dagli atti del convegno organizzato a Roma il 22 febbraio scorso dall’Associazione per la democrazia costituzionale, non v’è chi non sappia che un qualsiasi progetto di legge, tanto più se di iniziativa governativa, può benissimo essere iscritto con priorità, anche assoluta, all’ordine del giorno della Camera o del Senato.
Anche la determinazione del termine del procedimento di formazione di una legge è nella possibilità di tale maggioranza.
Decorso lo stesso termine la stessa maggioranza può sempre respingere emendamenti, articoli aggiuntivi e quant’altro dispiaccia al Governo.
Perché allora attribuire al Governo poteri tipici delle Assemblee parlamentari?
Se per richiamare la propria maggioranza alla coerenza col programma di governo concordato in occasione dell’instaurazione del rapporto di fiducia, il Governo può ben servirsi della “questione di fiducia” della quale, per la verità, già fa un uso scandaloso, specie se combinata a maxiemendamenti ai testi dei decreti-legge.
Non basta tale uso, si intende legittimare costituzionalmente l’abuso di potere di intervento del Governo nel processo di formazione delle leggi, l’appropriazione surrettizia del potere legislativo a danno del Parlamento ?
I proponenti della riforma affermano che con le modifiche che si vogliono apportate si miri a rafforzare Governo e Parlamento.
In realtà a rafforzarsi dalla scelta di sostituire il Presidente del Consiglio all’intero governo come destinatario della fiducia parlamentare non è né il Parlamento, né il Governo.
Non è il Parlamento cui viene sottratto il giudizio sulle qualità politiche dei singoli responsabili dei vari dicasteri e sulla intera compagine governativa.
Non è il Governo cui mancherà la forza politica che solo la fiducia del Parlamento espressa al suo insieme può conferirgli.
A rafforzarsi sarà solo il Presidente del Consiglio.
Alla stessa impostazione risponde il meccanismo predisposto per la sfiducia.
Lo si aggrava sia aumentando da un decimo ad un terzo dei membri di ciascuna Camera la sottoscrizione della mozione di sfiducia, sia stabilendo che debba contenere il nome del nuovo Presidente del Consiglio, sia prescrivendo che possa essere approvata solo con la maggioranza assoluta dei membri di ciascuna delle due Camere.
Alle quali, da una parte, si imporrebbe di riunirsi in seduta comune, dall’altra, si esclude che possano agire come collegio.
Per la validità dell’approvazione della mozione di sfiducia, infatti, è richiesto il voto della metà più uno dei componenti di ciascuna delle due Assemblee che si vedrebbero costrette a votare nella stessa riunione ma separatamente.
Perché si vuol prescrivere allora che la sfiducia debba essere approvata dal Parlamento in seduta comune?
Inoltre è inserita la previsione che, qualora una delle due Camere neghi la fiducia, il Presidente del Consiglio sfiduciato ne possa chiedere lo scioglimento al Presidente della Repubblica eventualmente assieme a quello dell’altra Camera.
Non si comprende che margini di autonomia restino al Presidente della Repubblica.
Appare comunque evidente la compressione del potere di scioglimento che l’art. 88 della Costituzione attribuisce al Presidente della Repubblica.
Altrettanto evidente è l’intento di munire il Presidente del Consiglio di uno strumento forte di intimidazione nei confronti del Parlamento.
Non attenuato certo dal divieto di scioglimento delle Camere se, entro venti giorni dalla richiesta da parte del Presidente del Consiglio, il Parlamento in seduta comune dovesse indicare a maggioranza assoluta dei membri di ciascuna di esse il nome di un nuovo Presidente del Consiglio.
Tutto appare giustificato dall’esigenza di “stabilità politica”.
Ma sappiamo che la stabilità non può essere assicurata esclusivamente con interventi normativi o peggio stravolgendo gli equilibri dei poteri costituzionali.
Lo dimostra l’esperienza dei venti anni della cosiddetta “seconda repubblica”.
La stabilità o non ha retto per l’eterogeneità politica delle coalizioni affastellate solo allo scopo di godere delle distorsioni del sistema elettorale maggioritario con o senza premio di maggioranza, o ha addirittura bloccato la dinamica politica con governi inefficienti o perversi. Insistere sulla stabilità senza rappresentanza o con rappresentanza degli interessi del solo leader di maggioranza non raggiungerebbe alcun obiettivo concreto.
Resta il fatto che riforme di tale natura non possono essere assunte senza il coinvolgimento dei cittadini o senza un preventivo mandato costituente all’assemblea parlamentare.
Non può ignorarsi che una riforma costituzionale fortemente improntata a rafforzare i poteri del Premier – definito allora “Primo Ministro”- approvata dal Parlamento e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 269 del 18 novembre 2005, venne respinta con il 61,32% di voti contrari (ben 15.791.293 cittadini) in occasione del referendum costituzionale del 25 e 26 giugno 2006.
Una modifica di questa portata della Costituzione non dovrebbe dunque – va ribadito – passare sotto silenzio e nella distrazione generale, come già è avvenuto, purtroppo, due mesi fa con la modifica in tema di equilibrio del bilancio varata con la legge costituzionale n. 1 del 2012.
Il rischio del silenzio è aggravato dal fatto che si vorrebbe approvare la modifica con la maggioranza dei due terzi nelle due Camere, il che escluderebbe la possibilità di un referendum che riaccenda l’attenzione dell’opinione pubblica.
Ben venga la riduzione del numero dei parlamentari, questa sì auspicabilmente prima della scadenza della legislatura, sganciata da riforme ordinamentali che incidono in modo poco ponderato e coordinato sull’assetto costituzionale della Repubblica, coerentemente unita alla tanto proclamata riforma della legge elettorale, per ridare davvero potere di scelta ai cittadini, di cui però i nostri parlamentari sembra non abbiano voglia di occuparsi.
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