Di fronte ad un fatto ingiustificabile come questo, per giunta conclusosi a lieto fine, che bisogno c’è di rielaborare l’episodio e condividere il proprio punto di vista con l’intera organizzazione? E’ utile porsi questa domanda perchè, partendo dalle reazioni ad episodi così singolari, generalmente scaturiscono precise azioni. Capire le reazioni può quindi aiutare ad intravedere nuove linee di indirizzo che, in tema di tributi, diventano cruciali per i risvolti pratici che esse potranno avere.
C’è chi penserà che sarebbe stato grave, da parte di un capo, lasciare che una tale vicenda venisse commentata da tutti gli organi di informazione e non dai vertici interni. Alcuni invece sosterranno che la lettera sia stata scritta dal Befera manager, in dovere di motivare il proprio personale e mantenerlo coeso anche in questi frangenti. Altri ancora penseranno che sia stata scritta da un Befera politico, intenzionato a dar voce alla propria gente, all’indignazione e all’impotenza che essa sente di voler esprimere.
Probabilmente l’autore della lettera è insieme il Befera uomo di comunicazione, il Befera manager e il Befera politico. Ma il senso della lettera è quello di un appello tacito – e autentico proprio perchè manifestato ai “suoi” – volto alla revisione di un sistema di regole in grado di riallineare gli interessi del pubblico, del privato e, di conseguenza, gli interessi degli operatori fiscali. «Se lavoriamo male, ci accusano di essere complici dei tanti furbi che evadono. Se facciamo invece il nostro dovere, siamo gli aguzzini di gente disperata che non sa più dove sbattere la testa». Il problema di cui sono vittime sia lo Stato, sia il contribuente, sia l’impiegato dell’Agenzia delle Entrate è il sistema di norme che consente la presunzione legale semplice di evasione a carico di ogni contribuente, un sistema che ammette il ricorso ma con deposito di una cauzione di circa un terzo del valore della pratica e, come noto, un sistema che pretende subito i propri crediti senza onorare prontamente i propri debiti. E’ quindi vero che, se il funzionario dell’Agenzia lavora male, egli deve essere guardato alla stregua del complice dell’evasore. Il nodo della questione è tuttavia il “lavorare bene”, ovvero la consueta attività dell’Agenzia delle Entrate basata molte volte sulla corretta applicazione di un sistema non correttamente calibrato.
Il problema vero è il seguente: il funzionario che lavora bene può legittimamente applicare le presunzioni legali usando, per esempio, il redditometro, gli studi di settore o lo spesometro. Questi strumenti consentono di spostare l’onere della prova sul convenuto, così che il funzionario può legittimamente chiedere una prova negativa, tanto ardua da venir chiamata “diabolica”, a quel contribuente che:
1)senza possedere né un Porsche né una villa in Trentino, è chiamato a confermare con dimostrazioni, diaboliche appunto, il proprio modesto reddito solo per il fatto di possedere una sola utilitaria e una casa di proprietà, magari gravata da mutuo (redditometro);
2)pur conducendo una regolare attività, soggetta all’andamento generale dei consumi, è chiamato a giustificare un volume d’affari troppe volte considerato non congruo rispetto a parametri legali, che difficilmente tengono conto delle dinamiche della crisi (studi di settore);
3)senza percepire alti redditi effettivi, è chiamato a smontare la presunzione secondo la quale è stato guadagnato nell’anno almeno quanto è stato speso nello stesso anno (spesometro).
Gli incentivi di cui ogni ufficio gode ogni qual volta il proprio personale raggiunge il budget non fanno altro che inasprire il problema delle presunzioni legali: più si è incentivati a far emergere base imponibile, più aggressivo sarà un utilizzo “cieco”, seppur lecito, delle presunzioni legali. L’effetto congiunto di queste regole ed incentivi crea un clima nocivo secondo cui il contribuente è evasore fino a prova contraria. Con buona pace dello Statuto del Contribuente, che all’articolo 10 sancisce il principio di collaborazione e buona fede tra Stato e contribuente.
Il significato della lettera appare quindi un appello contro un’architettura tributaria asimmetrica, maldestra nell’indirizzare gli incentivi, calibrare le norme ed ottemperare interessi. La speranza ricade quindi su una riflessione profonda e “tecnica” perchè, come Befera stesso sostiene «Ciò di cui abbiamo bisogno è chiarezza e condivisione riguardo a ciò che dobbiamo fare».
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