Nel settore dei contratti pubblici è ormai arcinoto che più le norme sono tante più alto è concreto il rischio di alimentare il fenomeno corruttivo. Questo aspetto mi induce a fare una serie di riflessioni e non solo terminologiche. La materia è talmente vasta che la presente disamina ha soltanto valore illustrativo di un fenomeno dai mille tentacoli e dalle diecimila tentazioni che si pone come obiettivo quello di stimolare un dibattito nell’attesa di tornare sul tema individuando caso per caso gli aspetti più patologici.
Parafrasando Pessoa siffatta disciplina può definirsi come il Codice dell’inquietudine. Inquietudine del legislatore che non trova pace eccedendo in burocrazia che rallenta il farraginoso sistema e non consente il raggiungimento degli obiettivi fissati: una procedura di gara “buona e giusta”. Inquietudine delle stazioni appaltanti spesso troppo inadeguate a seguire e gestire le novità normative avendo anche modesta formazione che lascia gli operatori, abbandonati a loro stessi, alle prese con qualcosa più grande di loro rendendo vulnerabile l’amministrazione di appartenenza dando spazio, anche involontario, al connubio tra i vari “attori” o “personaggi” che quasi sempre prendono il sopravvento. Inquietudine delle imprese partecipanti spesso prime vittime della “lunga e tortuosa strada” della burocrazia che spesso o rinunciano prima di cominciare, o intraprendono le vie legali. O prendono direttamente altre vie in relazione al citato connubio…
In merito a tale ultimo punto, un primo passo, nell’ottica della massima trasparenza ed efficacia degli interventi, è rappresentato dalla recente soluzione attraverso la quale l’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani e la Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici hanno siglato un’intesa, con l’obiettivo di promuovere la corretta applicazione del “Codice degli appalti” (dlgs n.163/2006), e delle nuove disposizioni del Codice delle leggi antimafia, in vigore dall’ottobre 2011.
L’accordo punta sulle Stazioni Uniche Appaltanti (SUA) che le Regioni hanno l’obbligo di costituire, secondo il “Piano nazionale antimafia”, operativo dal giugno scorso.
Il modello mira a garantire trasparenza, regolarità ed economicità nella gestione degli appalti pubblici; ANCI e Avcp si impegnano a predisporre apposite linee guida sulle modalità di costituzione delle SUA, con indicazioni sulla corretta redazione della documentazione di gara, sulla gestione delle procedure di affidamento degli appalti, anche attraverso piani di formazione mirati.
Con il Protocollo l’Autorità e l’ANCI lavoreranno anche per promuovere specifiche intese sui temi della tracciabilità, della semplificazione delle procedure e della white list delle imprese. Si tratta del meccanismo secondo cui un’impresa che vuole partecipare all’affidamento di commesse pubbliche, sarà obbligata a sottoporsi, in fase di accreditamento, ad una puntuale ricognizione periodica dei suoi dati societari.
In primo luogo, si avverte dunque la necessità di un Codice negli appalti che prevenga in maniera definitiva le occasioni prossime di peccato che la mancanza della certezza di regole produce e amplifica.
Un codice negli appalti significa anzitutto che la normativa deve essere poca, semplice e chiara. Deve individuare i principali aspetti della disciplina ed evitare quanto più possibile il primato della deroga sulla regola.
Una sorta di cura dimagrante che impedisca al legislatore una bulimia normativa; occorre poter percorrere autostrade scorrevoli con una completa segnaletica e non itinerari dissestati di campagna; altrimenti, come spesso accade, si ricorre all’aiuto di navigatori “navigati” per arrivare prima alla meta prendendo delle suggerite scorciatoie e violando sistematicamente il codice della strada “regolamentare”.
E’ del tutto evidente che in questa materia il primo codice da applicare è quello etico; successivamente occorre “sbucciare” la notevole produzione di leggi per arrivarne alla polpa essenziale per creare le condizioni necessarie al regolare svolgimento di ciascuna gara o affidamento che dir si voglia . Ma i vincoli di moralità e responsabilità debbono essere le prime domande del legislatore e le prime risposte dell’ordinamento giuridico contro ogni cultura di formalismo immediatamente superata dall’agevole elusione delle norme, approfittando della confusione delle stesse. Ne deriva una sorta di apologia del dettaglio; nel quale il legislatore alla stessa stregua di un sarto cuce il bottone ma lascia il sistema a spalle scoperte.
Ecco perché oggi è più che mai necessario dotarsi di tecniche amministrative che , sulla base di una illimitata casistica di evidente aggiramento delle attuali superflue norme, possano riequilibrare il sistema contaminato da un “illegalesimo legale” per dirla con Piero Calamandrei conseguenza di una debole giuridicità.
Troppo spesso il legislatore attribuisce allo strumento di Codice “riepilogativo” poteri taumaturgici per curare il sistema malato. Ma tutti noi sappiamo che non è così. Questa piuttosto è una valutazione da apprendisti stregoni con un miscuglio di pozioni che hanno prodotto una degenerazione dei comportamenti che hanno negato al nostro Paese i normali meccanismi autocorrettivi del sistema patologico.
Per quanto appena esposto possono adattarsi le sagge parole di Sabino Cassese pronunciate nel corso della lettura annuale del Mulino (Italia: una società senza Stato?). Egli afferma che “l’ordinamento giuridico, in principio retto da un diritto codificato, è stato così completato da una sorta di disobbedienza legale fatta da norme speciali, straordinarie eccezionali, derogatorie che rappresentano altrettante evasioni ed erosioni del diritto codificato, richiedendo o suggerendo sempre nuovi adattamenti a casi specifici e che questa tendenza ha prodotto sovrabbondanza di norme e grande volume di leggi, difficilmente ordinabili a casi specifici”.
Se è noto che nel settore dei contratti pubblici, i vantaggi, per il corruttore, possono derivare dal ricorso a procedure ristrette e ad affidamenti diretti, dai subappalti, dalla mancata osservanza degli obblighi in materia di qualificazione delle imprese, dall’uso distorto delle varianti in corso d’opera al fine di far lievitare i costi e così via, allora un sistema non può cambiare, cambiando nome alle cose (es. la famigerata trattativa privata), ma cambiando effettivamente le cose. Le regole o bisogna applicarle, o bisogna cambiarle. Ha affermato recentemente Guido Rossi che “Il nostro male peggiore, che si è radicato nella vita economica, nella vita sociale, in quella culturale e in quella politica, fino a minare le fonti principali della ricchezza e del benessere del Paese, nonché i principi stessi della democrazia e della sovranità popolare ha un nome: illegalità. L’illegalità che in Italia non è solo rappresentata da atti contrari o proibiti dalla legge, ma sovente anche da consuetudini di vita rese possibili dalla mancanza di leggi efficaci, poiché per troppo tempo il nostro legislatore si è preoccupato di rendere legali interessi privati illeciti”
Ecco perché per non fermarsi a mere operazioni cosmetiche è necessario con poche, semplici e chiare norme “costruire” un Codice negli Appalti messo a punto, per dirla ancora con Cassese, da uno Stato – ordine giuridico, con un severo minimo di regole valide per tutti; non una cassetta degli attrezzi dalla quale trarre discrezionalmente condizioni di favore o di disfavore, ma un sistema di ordine e divieti da tutti rispettati; non un corpo malato, oggetto di sospetto sia da parte di governanti sia da parte di governati, ma un organismo sano sul quale la collettività possa fare affidamento.
Un codice negli appalti potrebbe fare tutto questo. Potrebbe rompere la consuetudine di abitudini consolidate e di assolvere alla funzione primaria di assicurare la reale e concreta concorrenza la quale, per realizzarsi in questo delicatissimo settore, più che mai deve essere preceduta dalla sostanziale trasparenza ed imparzialità che solo una certezza delle regole,da tutti rispettate, può assicurare.
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