Questo il succo citrico della Sentenza Sezioni Unite Penali n. 11545 del 23 marzo 2012 in materia di esercizio abusivo di una professione .
La pronuncia si inserisce nel contrasto interpretativo in tema dell’art. 348 c.p. e specificatamente in relazione tra atti “tipici” ed atti “caratteristici”.
Non siamo di fronte ad una oziosa distinzione, né al cospetto di sottigliezze argomentative accademiche, posto che chiunque potrà cogliere le ricadute pratiche di questo contrasto, ove solo si consideri che per atti “tipici” si intendono quelli “di competenza specifica” della professione regolamentata, quindi normativamente circoscritti allo svolgimento delle attività specificamente riservate da un’apposita norma a una determinata professione, sul presupposto della previa iscrizione all’albo.
Viceversa devono intendersi come atti “caratteristici”, quelli strumentalmente connessi ai primi, che rilevano penalmente solo se vengano compiuti in modo continuativo e professionale “.
Pertanto, commette il reato di esercizio abusivo della professione il soggetto che svolge attività “tipica e di competenza specifica” della professione regolamentata senza però essere iscritto all’Albo professionale.
Per quanto attiene la pratica rilevanza, sarà sufficiente porre mente, in particolare alla vexata quaestio circa la delimitazione professionale di competenze specifiche nella professione medica e, in particolare alla perenne diatriba tra medici dentisti ed odontotecnici.
Naturalmente, con i dovuti distinguo, si potrà rapportare l’arresto giurisprudenziale anche alla insorgenza di nuove figure “androgine” di consulenti, conciliatori, mediatori e simili rispetto alle “tipicità di genere” delle professioni ordinisticamente codificate, e della relativa riserva di legge in punto di iscrizione ed abilitazione.
La sentenza in questione, in particolare, è stata tratta relativamente al caso specifico dei commercialisti, e qui appare particolarmente evidenziato il landmark della riforma del 2005, istitutiva dell’Albo unificato dei dottori commercialisti e degli esperti contabili.
Infatti, stante la caratterizzazione della tipicità degli atti così come prima delineata, saranno punibili esclusivamente gli atti “tipici” posti in essere continuativamente e con requisiti di professionalità, a partire dal 2005.
La massima è, sul punto realmente analitica nel passaggio in cui cita “concreta esercizio abusivo di una professione, punibile a norma dell’art. 348 cod. pen., non solo il compimento senza titolo, anche se posto in essere occasionalmente e gratuitamente, di atti da ritenere attribuiti in via esclusiva a una determinata professione, ma anche il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva, siano univocamente individuati come di competenza specifica di una data professione, allorché lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per continuatività, onerosità e (almeno minimale) organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un’attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato”.
E sono proprio i requisiti di “continuatività, onerosità e (almeno minimale) organizzazione” a tutelare, in prospettiva per così dire “consumeristica”, l’utente dalla “oggettive apparenze di un’attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato”.
In tale prospettiva, per stare al caso concreto, si legge in sentenza che il ricorrente “sarebbe risultato in realtà un tuttofare, che solo incidentalmente avrebbe posto in essere sporadiche attività fra quelle descritte nella prima parte dell’art. 1 d.P.R. 27 ottobre 1953, n.1067: andava a prendere il lavoro direttamente presso i mercati all’aperto ove il (…) lavorava, ricevendone in cambio somme modeste ed occasionali regalie consistenti in maglieria intima; indicava quale proprio indirizzo non quello di uno studio professionale, come sostenuto, ma solo quello di casa propria, un’abitazione senza una targa che lo indicasse come commercialista, sprovvista di una segreteria o di altri elementi caratteristici di uno studio professionale. Una abitazione privata che, nella prospettiva accusatoria, sarebbe diventata il centro nevralgico di un’attività organizzata, continuativa e professionale”.
Sul punto è evidente che la tutela della legge è più orientata verso la tutela dei terzi rispetto alla “apparenza” della continuità professionale con l’insorgenza dei presupposti del fondato affidamento della sussistenza di una abilitazione, piuttosto che per l’arroccamento dei “privilegi di riserva” per gli iscritti ad un Albo.
Si sono immediatamente levate subitanee voci trionfali di natura “ordinistica”, tuttavia sarà certamente interessante vedere come una così netta pronunzia potrà essere applicata giudizialmente.
Ma ancora più interessante sarà vedere come la stessa sarà interpretata normativamente, in un contesto politico nel quale ci si sforza di gabellare per spinta alla “concorrenza competitiva” quella che in realtà è la cupidigia dei grandi committenti di impadronirsi delle “sacche di resistenza” delle professioni per svilirne costi e valori.
Da abilitati ed iscritti, vigileremo.
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