Il primo commento di Giampaolo Galli è il più radicale. L’affermazione centrale dell’approfondimento è molto chiara e rappresenta la sintesi del “programma” di coloro che vogliono la privatizzazione dei servizi ai disoccupati: “Il ruolo che dovrebbero svolgere gli uffici pubblici potrebbe essere svolto da agenzie private, come è stato proposto da Pietro Ichino, o da fondi bilaterali che si occupino di formazione e ricollocazione dei lavoratori”.
Occorre chiedersi cosa non funziona del ragionamento proposto. In primo luogo, le premesse da cui parte. L’articolo del Galli parte da due osservazioni:
a) la flexsecurity funziona solo se si imposta rigorosamente il principio che se il lavoratore disoccupato che goda di un ammortizzatore sociale rifiuti una proposta di lavoro o di formazione professionale, deve perdere il sussidio; ma questo, sottolinea il Galli, in Italia, salvo rare eccezioni, non funziona, anche perché presso gli uffici pubblici di collocamento avviene poca intermediazione tra domanda e offerta;
b) esiste un problema di sbilanciamento tra le risorse che l’Italia destina al sistema pubblico di ricerca del lavoro e quello che impiegano gli altri stati: “per le politiche attive l’Italia spende lo 0,37% del Pil, contro l’1% di Germania e Francia e l’1,48 della Danimarca”.
Dunque, l’Italia, che vuole copiare dalla Danimarca il sistema della flexsecurity, investe nelle politiche attive 4 volte meno della Danimarca stessa e 2,7 volte meno di due paesi-guida, come Francia e Germania.
Approfondendo l’analisi, utilizzando i dati di Italia Lavoro (R. Cicciomessere, M. Sorcioni, “La collaborazione tra gli operatori pubblici e privati”, collana “Gli strumenti” di Italia Lavoro) relativi al 2007 scopriamo quanto divaricata sia la situazione della Danimarca, rispetto all’Italia. La popolazione della Danimarca è di circa 5,5 milioni di abitanti. Di questi 6.400 sono impiegati negli uffici di collocamento, lo 0,12% della popolazione. In Danimarca, nel 2007, i disoccupati risultano 111.000. La spesa per le politiche di aiuto ai disoccupati sul Pil in Danimarca risultava pari al 4,3%. Ogni dipendente del collocamento danese si deve occupare, mediamente, di 17 persone in cerca di lavoro.
Veniamo, ora, in Italia. La popolazione del nostro Paese è di circa 60,5 milioni di abitanti. I dipendenti impiegati nei servizi pubblici del collocamento sono circa 10.000, ovvero lo 0,2% della popolazione. Nel 2007, contro i 111.000 disoccupati danesi, quelli italiani erano oltre 1,5 milioni. La spesa sul Pil per le politiche del lavoro in Italia nel 2007 era dell’1,3%, contro il 4,3% della Danimarca. Mediamente, ogni dipendente italiano dei servizi pubblici per l’impiego deve occuparsi di 150 disoccupati, contro i 17 che deve prendere in carico un dipendente danese.
Nel corso degli ultimi anni, i dati riportati riferiti al 2007, sono certamente peggiorati quanto al numero dei disoccupati da gestire.
Il confronto tra i sistemi italiano e danese è impietoso. La Danimarca si permette la flexsecurity in un sistema economico molto avanzato, con una popolazione complessiva inferiore a quella della Lombardia, un prelievo fiscale elevatissimo, compensato da servizi pubblici per le politiche attive per il lavoro sui quali lo stato scandinavo investe quattro volte più che l’Italia. Spesso, i servizi per il collocamento in Italia vengono tacciati – non sempre a torto – di inefficienza. Ma se debbono competere con quelli degli altri Paesi, con risorse infinitamente inferiori, si capisce che non può esservi confronto. Le inefficienze esistenti nelle politiche del lavoro svolte dai servizi pubblici sono certamente indotte dalla scarsa dotazione di risorse; scarsissima, se confrontata con la Danimarca, cui ora ci si vuole ispirare.
Sembrerebbe, allora, di poter affermare che l’assunta inefficienza dei servizi pubblici per il lavoro operanti in Italia, specie se comparata a quelli di altri Paesi, nei quali – è bene sottolineare – i servizi di collocamento sono gestiti dal pubblico, è causata certamente anche, e forse principalmente, dalla scarsità di dotazioni finanziarie che il bilancio pubblico destina al sistema.
La soluzione che ci si aspetterebbe, dunque, di fronte a questa analisi dovrebbe essere il potenziamento dell’investimento di risorse pubbliche, per rafforzare i servizi pubblici.
Del tutto all’opposto, invece, il Galli pur avendo rilevato l’incomparabile limitatezza delle risorse pubbliche italiane afferma “per quanti sforzi si possano fare per rendere efficienti gli uffici del lavoro e coordinarli con l’Inps, è difficile immaginare che sia il settore pubblico a risolvere il problema”.
Difficile non replicare che questa è una vera e propria affermazione di principio non dimostrata e sostanzialmente smentita proprio dall’organizzazione dei servizi per il lavoro del Paese al quale ci si vuole ispirare, cioè la Danimarca.
Strano il destino degli uffici pubblici per il lavoro in Italia. In effetti il “collocamento” per anni ed anni è stato il simbolo dell’inefficienza dello Stato, l’archetipo dell’ufficio burocratico capace solo di produrre file, senza produrre nulla. Finchè con il d.lgs 469/1996, il legislatore, nell’ambito del processo di decentramento delle funzioni amministrative dallo Stato agli enti locali, non decise letteralmente di “appioppare” il collocamento alle regioni, che a loro volta tra il 1999 e il 2000 lo assegnarono alle province. E in quegli stessi anni si aprì la via anche alle funzioni di incontro domanda/offerta gestiti dai privati, le agenzie per il lavoro.
Dopo centinaia di anni nel corso dei quali lo Stato ha gestito in modo altamente inefficiente il collocamento, si è improvvisamente avuta la pretesa che le province, disponendo delle limitatissime risorse viste prima, dovessero trasformare i servizi per l’impiego in qualcosa di profondamente diverso, nel breve volgere di 10 anni. E’ vero che in questi anni non sono mancate risorse del Fondo sociale europeo e dello Stato; ma si è trattato di flussi di sola spesa corrente, non destinabili ad investimenti prolungati. Le province non hanno potuto investire in nuovo personale, nel tentativo di rinnovare competenze ed abitudini ancora legate al precedente inefficientissimo sistema, perché nel frattempo il patto di stabilità e le restrizioni sulle assunzioni ha bloccato sul nascere ogni iniziativa stabile nel tempo di rinnovamento. Dunque, la Danimarca è rimasta lontana. Ma, certamente, non per volontà o incapacità del sistema provinciale del lavoro.
Per avvicinarsi alla Danimarca, allora, la ricetta che si propone non è un investimento sui servizi pubblici, ma la loro totale dismissione. Sul presupposto che sia il “privato” a potere e dovere svolgere meglio e in modo efficiente i servizi per il lavoro.
La totale dismissione del servizio pubblico per il lavoro già da sola e di per sé desta non poche perplessità. E’ forse banale ricordare che ai sensi dell’articolo 1, comma 1, della Costituzione “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Il lavoro, dunque, è un diritto fondamentale del cittadino italiano, che simmetricamente deve essere garantito dallo Stato e gli altri enti che con esso concorrono a costituire la Repubblica. Si tratta di un diritto universale, da riconoscere a chiunque, senza alcuna distinzione di età, sesso, religione ed altri criteri di stratificazione. Ed essendo un diritto, le prestazioni ad esso connesse non possono che essere rese dal pubblico, finanziate dalla fiscalità generale.
Il privato deve poter intervenire perché secondo il Trattato Ue non è consentito un monopolio pubblicistico dei servizi per il lavoro. Si dovrebbe determinare, allora, un concorrenza non competitiva ma ausiliaria tra servizi pubblici e privati per il lavoro, allo scopo di estendere, con la collaborazione tra i vari soggetti, le tutele e garanzie.
La negazione assoluta dei servizi pubblici per il lavoro va evidentemente in senso irrimediabilmente contrario a queste semplici e fondamentali osservazioni.
Torniamo, allora, alla teoria fondamentale: il ruolo oggi svolto anche dagli uffici pubblici dovrebbe essere svolto solo da agenzie private.
Spiegano i fautori di questa idea che la premessa logica è la profonda riforma dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, in modo che la reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore licenziato si restringa ai soli casi di discriminazione. Dunque, la tutela del lavoratore licenziato si dovrà concentrare esclusivamente, come spiega sempre il Galli, nella “erogazione di una somma di denaro da parte dell’azienda al lavoratore, come avviene in altri Paesi”.
Qui, la teoria prosegue in tutti i suoi aspetti critici e delicatissimi: “In questo quadro, la legge o i contratti collettivi potrebbero stabilire che una parte di questa somma possa essere erogata sotto forma di servizi di outplacement, direttamente o tramite un contratto con un’agenzia privata o un fondo bilaterale”. E, per esempio, laddove l’impresa offra al disoccupato il servizio di outplacement, la somma in denaro, o un parte di essa, potrebbe non essere erogata subito al disoccupato, ma gradualmente e dopo un certo numero di mesi. Qualora il processo di ricollocazione dovesse aver successo, il disoccupato trova un nuovo lavoro e l’impresa che lo ha licenziato smette di erogare le mensilità residue. E così, aggiunge ancora il Galli “farebbe anche l’Inps, sospendendo il sussidio pubblico, dato l’obbligo in capo al nuovo datore di lavoro di comunicare l’avvenuta assunzione”.
L’ultima parte del ragionamento non fa una piega. Ovviamente, i sussidi debbono essere sospesi quando il disoccupato si rioccupa. Ma, forse è bene ricordare che avviene già così; allo scopo non occorre proprio alcuna riforma.
La parte realmente innovativa del ragionamento è la prima ed è proprio quella meno convincente e compatibile con la Costituzione.
La teoria si guarda bene dal qualificare la “somma di denaro” che l’impresa che licenzia dovrebbe erogare al lavoratore licenziato. Perché se tale somma venisse denominata col nome che le spetta risulterebbe evidente la speciosità del sistema immaginato. Ma quella “somma di denaro” ha un nome: è un indennizzo. Che assumerebbe natura di obbligazione risarcitoria, nel caso di licenziamento non sorretto da giustificato motivo (pur non discriminatorio).
Nel caso di licenziamento ingiustificato risulta assolutamente evidente che l’indennità assume funzione sanzionatoria per l’inadempimento del datore a mantenere in piedi il rapporto di lavoro. Laddove, invece, con la modifica dell’articolo 18 si individuasse un’area di libera recedibilità del rapporto di lavoro che sfoci in licenziamenti per ragioni economiche, l’indennizzo compenserebbe l’area di rischio del contratto di lavoro che, pur qualificato a tempo indeterminato, sconterebbe in ogni momento una forte alea di rischio in merito alla sua continuità nel tempo.
Nell’uno e nell’altro caso, l’indennizzo che l’impresa dovrebbe erogare al lavoratore è una somma “del lavoratore”; nell’ipotesi di licenziamento legittimo, si tratterebbe di un accessorio della retribuzione, eventualmente connesso all’ipotesi del recesso anticipato del rapporto di lavoro; nell’ipotesi di licenziamento ingiustificato, insorgente dall’inadempimento. Non si vede proprio, allora, come possa immaginarsi che l’impresa licenziante possa, sulla base di una legge o di contratti collettivi, scegliere se erogare tutto l’indennizzo o se, tutto o in parte, destinarlo a servizi di outplacement.
Se una legge o la contrattazione collettiva consentissero questo, si esproprierebbe in sostanza il lavoratore di una somma di denaro propria, finalizzata a ristorarlo dell’immenso disagio derivante dall’interruzione anticipata ed imprevista del rapporto di lavoro. Per assurdo, allora la stessa idea si potrebbe estendere al Tfr.
La “condizionalità”, cioè il mantenimento del sussidio al disoccupato a condizione che esso dia corso ad una vera ed effettiva ricerca attiva di lavoro, non va connessa all’indennizzo privato che il datore gli eroga, ma solo ed esclusivamente agli strumenti pubblicistici di garanzia, cioè agli ammortizzatori sociali, finanziati dall’erario e dai versamenti all’Inps.
Se passasse l’idea che qui ci si permette di evidenziare nei suoi lati potenzialmente negativi, si negherebbero i capisaldi delle tutele universali e gratuite per i lavoratori. Non solo, infatti, li si esproprierebbe di indennizzi di propria spettanza. Ma, li si vincolerebbe anche alla misura di politica attiva scelta, per suo conto, dal datore che lo ha licenziato. Infatti, sarebbe questo a destinare la quota dell’indennizzo da versare alle “agenzie private” chiamate a realizzare l’outplacemente, quando, invece, dovrebbe essere un diritto pieno ed assoluto del lavoratore scegliere quale misura di politica effettuare e con chi.
Non è finita. L’idea potenzialmente può scatenare un sistema discriminatorio e fortemente inefficiente. Ovviamente, i datori di lavoro sarebbero il più possibile portati a non versare somme di denaro ai licenziati, per “girarle” alle “agenzie private” costituite con capitali probabilmente delle associazioni imprenditoriali cui i datori stessi aderiscano. In questo modo, si creerebbe in circuito chiuso, nel quale somme che dovrebbero spettare ai disoccupati continuano, invece, a finanziare il sistema datoriale. E ci sarebbe molto da dubitare sull’efficienza della ricollocazione. Se il sistema assumesse davvero le caratteristiche indicate prima, il datore che licenzia non avrebbe in sostanza particolare interesse a che il lavoratore da lui licenziato trovi presto lavoro; al contrario, il circuito chiuso presuppone che le agenzie private di ricollocazione utilizzino tutta la somma di denaro del lavoratore per finanziarsi.
Insomma, il rischio fortissimo che sta dietro a questa idea è la trasformazione della disoccupazione in un business finanziato con denari dei lavoratori. Senza trascurare di citare la tendenza, ovvia, che avrebbero le agenzie di concentrare la ricollocazione solo su lavoratori facilmente spendibili, a tutto detrimento delle categorie svantaggiate.
Pare un’idea un po’ radicale della “sussidiarietà”, principio evocato come base tecnica della teoria della totale privatizzazione dei servizi per il lavoro. Ma, così si confonde la sussisdiarietà appunto con la privatizzazione. Quest’ultima postula l’uscita di scena del pubblico, che non svolge più – né dovrebbe finanziare – funzioni lasciate al privato. La sussidiarietà, al contrario, è la collaborazione tra pubblico e privato. Questo “sussidia”, cioè aiuta, aggiunge alle attività e anche alle risorse del privato propri strumenti, per perseguire un comune interesse collettivo e a condizione che la sua attività abbia requisiti pari a quelli fissati per l’azione pubblica.
La sussidiarietà non porta affatto all’annullamento del pubblico e alla sua sostituzione col privato, ma alla composizione delle forze e delle risorse rispettive.
In questo senso, anche la proposta di Francesco Giubileo non persuade. Essa prevede che l’intermediazione tra domanda e offerta di lavoro sia esternalizzato dalle province alle agenzie per il lavoro private, mediante gare d’appalto, in modo da creare un rapporto tra soggetti pubblici e privati non più concorrenziale, ma formalmente complementare. Occorrerebbe a questo scopo “una capillare attività di monitoraggio: il ministero del Welfare, tramite incarico a un ente esterno, dovrebbe valutare le performance dei soggetti accreditati attraverso un sistema di classificazione delle prestazioni dei fornitori, per mezzo dell’attribuzione di un voto”. A questo punto, i finanziamento verrebbero erogati alle agenzie private in base ai risultati conseguiti, con particolare riferimento a quante persone avrebbero collocate al lavoro, in relazione a standard minimi da rispettare.
La proposta stima il costo di tale idea intorno ai 300 milioni di euro (sostanzialmente il bonus da erogare ai soggetti privati per ogni ricollocazione), ricavabili “da una parte delle risorse utilizzate per finanziare la cassa integrazione in deroga e in parte dai finanziamenti del Fondo sociale europeo”.
Punti debolissimi di questa idea sono due. In primo luogo il finanziamento “transeunte”, proveniente dal Fse. Proprio l’utilizzo di risorse non stabili nel tempo poste a finanziare le politiche per il lavoro sono causa dell’attuale carenza di investimenti fissi e continuativi dell’Italia in questo campo. Con le risorse Fse si possono realizzare solo progetti limitati nel tempo; non è possibile addirittura pensare alla privatizzazione mediante gare di servizi fissi e continuativi.
In secondo luogo, la politica del “bonus” ai privati dimentica che essi ricavano già dall’attività di ricollocazione un guadagno, che gli assicura l’azienda che richiede loro il servizio di ricerca e selezione, oltre agli altri ricavi derivanti dall’eventuale somministrazione. Non si capisce, oggettivamente, perché attribuire alle agenzie ulteriori risorse pubbliche per pagare servizi già pagati dai privati.
Allo scopo di incentivare la collaborazione pubblico-privato c’è un istituto purtroppo poco applicato, l’articolo 13 del d.lgs 276/2003, il quale prevede la combinazione delle risorse pubblico-private, senza giungere alla dismissione del ruolo del pubblico. La collaborazione vera e propria tra le due realtà passa dalla messa a disposizione da parte dei centri per l’impiego di rose di lavoratori, spendibili, affidando la quota di intermediazione che essi non riescono a gestire direttamente, alle agenzie, sulla base di programmi di accompagnamento al reinserimento lavorativo concordati e condivisi, finanziati con risorse private, come prevede appunto l’articolo 13.
I centri per l’impiego intermediano poco, esattamente come altrettanto poco intermediano le agenzie per il lavoro, in quanto in Italia è troppo inveterato l’uso di gestire le assunzioni tra amici e parenti.
Sarebbe, forse, opportuno pensare invece che a improbabili e rischiose privatizzazioni, a strumenti che inducano le aziende ad avvalersi dei canali ufficiali per la ricerca dei lavoratori: in questo modo il mercato del lavoro risulterebbe davvero più democratico e conoscibile e, dunque, più efficiente. Ad esempio, condizionando contributi pubblici o misure di incentivazioni alle imprese al vincolo di comunicare telematicamente al sistema pubblico-privato del collocamento le proprie vacancy. L’incrocio con le comunicazioni obbligatorie on-line potrebbe permettere agevolmente il controllo dell’adempimento a questo semplicissimo e banale onere, che accrescerebbe di molto l’intermediazione.
Luigi Oliveri
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