Leggo, sempre su queste pagine, questo ottimo intervento della collega Surano, sul caso degli annunci su Groupon da parte di possibili professionisti, correttamente intitolato in modo cronachistico “cosa è successo a Firenze” e mi sembra opportuno evidenziare alcuni importanti e significativi aspetti di inadeguatezza per il modo in cui la faccenda è stata gestita dall’Ordine territoriale.
Ritengo opportuno richiamare, a mo’ di premessa e per onestà nei confronti del lettore, le mie posizioni in materia di liberalizzazioni, che sono quelle di una persona estremamente a favore delle stesse e dell’apertura delle professioni, nonchè del loro svecchiamento, ma anche, al tempo stesso, di favore per il mantenimento di ordini territoriali o comunque di organi incaricati di curare la interpretazione e l’applicazione delle regole deontologiche, che rappresentano un valore aggiunto per qualsiasi professionista iscritto all’albo, che non è fine a sè stesso o limitato ai rapporti tra colleghi, ma si traduce in precisi vantaggi per gli utenti e la generalità di chi ha a che fare con il professionista (si pensi, a quest’ultimo riguardo, al precetto che impone agli avvocati di saldare regolarmente le proprie obbligazioni).
La deontologia, come sappiamo, «vive» nell’interpretazione e nell’applicazione delle regole – che non si possono considerare esaurite nel corpus già codificato, essendo l’illecito disciplinare in buona misura «atipico» – da parte degli Ordini, che, oltre ai procedimenti disciplinari in cui il fenomeno assume una dimensione afflittiva e repressiva, hanno cura di emanare pareri, considerazioni, risposte a singoli iscritti, circolari, da cui si possono desumere elementi importanti per discernere tra il lecito e l’illecito dal punto di vista etico, un discrimine peraltro in perenne evoluzione in parallelo con i cambiamenti tecnologici e sociali, come proprio l’evidenza di Groupon e iniziativa analoghe comprova.
Su queste premesse, mi pare davvero povero, tecnicamente scorretto e sostanzialmente inutile, in quella che dovrebbe essere la sua funzione di ricostruzione di utili indicazioni per i pratici, il parere rilasciato dall’Ordine di Firenze.
È davvero difficile concepire un parere in materia di pubblicità, costo dei servizi, sistemi tariffari senza mai citare nemmeno alla lontana le disposizioni di cui al Dl 223/2006, definitivamente convertito con la Legge n. 248 del 4 agosto 2006, cioè le famose riforme Bersani.
Parliamo, appunto, del parere n. 5 del 2011 reso dall’Ordine di Firenze e già pubblicato da leggioggi a questo indirizzo, dove il consiglio fa riferimento esclusivo a varie norme del codice deontologico forense ma, a quanto pare, dimentica integralmente quello che dispone in materia la legge dello Stato.
Eppure qualcosa ad almeno uno dei diversi consiglieri che hanno discusso il caso e compilato il parere avrebbe dovuto far accendere la classica lampadina.
Richiamiamo sommariamente quanto dispone la legge al riguardo (art. 2):
1. In conformita’ al principio comunitario di libera concorrenza ed a quello di liberta’ di circolazione delle persone e dei servizi, nonche’ al fine di assicurare agli utenti un’effettiva facolta’ di scelta nell’esercizio dei propri diritti e di comparazione delle prestazioni offerte sul mercato, dalla data di entrata in vigore del presente decreto sono abrogate le disposizioni legislative e regolamentari che prevedono con riferimento alle attivita’ libero professionali e intellettuali:
a) l’obbligatorietà di tariffe fisse o minime ovvero il divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti;
b) il divieto, anche parziale, di svolgere pubblicità informativa circa i titoli e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio offerto, nonché il prezzo e i costi complessivi delle prestazioni secondo criteri di trasparenza e veridicità del messaggio il cui rispetto è verificato dall’ordine;
c) il divieto di fornire all’utenza servizi professionali di tipo interdisciplinare da parte di società di persone o associazioni tra professionisti, fermo restando che l’oggetto sociale relativo all’attività libero-professionale deve essere esclusivo, che il medesimo professionista non può partecipare a più di una società e che la specifica prestazione deve essere resa da uno o più soci professionisti previamente indicati, sotto la propria personale responsabilità.
…
3. Le disposizioni deontologiche e pattizie e i codici di autodisciplina che contengono le prescrizioni di cui al comma 1 sono adeguate, anche con l’adozione di misure a garanzia della qualita’ delle prestazioni professionali, entro il 1° gennaio 2007. In caso di mancato adeguamento, a decorrere dalla medesima data le norme in contrasto con quanto previsto dal comma 1 sono in ogni caso nulle.
A me pare dunque che, in diritto, l’Ordine di Firenze avrebbe dovuto, se avesse voluto trattare in modo giuridicamente adeguato la materia – al di là del caso concreto, che come si è visto non aveva poi rilevanza dal momento che coinvolgeva un non professionista – partire proprio dall’analisi di questa disposizione e dei suoi scopi, dichiarati dalla disposizione stessa come quelli di «assicurare agli utenti un’effettiva facolta’ di scelta nell’esercizio dei propri diritti e di comparazione delle prestazioni offerte sul mercato».
Il comma 3° poi, peraltro del tutto pleonastico perchè una disposizione che proviene dall’ordinamento generale deve sempre prevalere su quelle degli ordinamenti particolari, come quello forense, anche considerando che la fonte dell’ordinamento generale ha rango legislativo mentre quella particolare verosimilmente consuetudinario, in ogni caso di grado inferiore, prevede espressamente che tutte le disposizioni dei codici deontologici sono da considerarsi “nulle” (il termine più corretto, naturalmente, sarebbe stato quello di “abrogate”, ma oramai siamo abituati ad una tecnica legislativa sempre più scadente).
Ciò impone, in generale, a qualsiasi ente od organo che voglia continuare a fare applicazione delle norme deontologiche in materia, come questa, che riguardano il costo e la pubblicizzazione del costo di un servizio professionale o para-professionale, di condurre previamente ed espressamente un giudizio di compatibilità dei canoni deontologici con la normativa legislativa emessa successivamente e ora in esame.
Ancora prima, in tutti i casi come quello seguito a Firenze, il primo riferimento, anche solo culturale, dovrebbe essere la legge stessa.
Sia chiaro che non discuto del merito: può essere che la conclusione cui è giunto l’Ordine fiorentino sia comunque corretta. Ma il procedimento rimane minato da una gravissima lacuna e rende il parere a mio giudizio per questo motivo sostanzialmente privo di valore, perchè contestabile nel cuore della sua motivazione.
Nel mio modo di vedere, come cennato, gli ordini vanno conservati, perchè la deontologia va mantenuta, come un bene sia per i professionisti che per gli utenti. Ma se la gestione della deontologia è questa, probabilmente c’è molto da rivedere anche in materia di come vengono formati gli ordini e come si svolge la loro attività.
Possibile che ad una decina di uomini di legge, che dovrebbero essere scelti tra i più anziani e quindi esperti, più saggi, preparati e rappresentativi, non sia venuta in mente l’esistenza di una legge fondamentale per il caso che stavano trattando come quella delle riforme Bersani, contro cui ci sono state anche forme di agitazione forensi, anche solo per disconoscerne l’applicabilità al caso concreto.
Se dobbiamo mantenere gli ordini per produrre elaborati di così scarsa qualità, allora tanto vale accogliere le tesi di chi vuole eliminarli del tutto.
Tanto più che un organo territoriale, che dovrebbe essere rappresentativo della comunità forense corrispondente, che dimostra di sapersi guardare solo la punta dei piedi e di avere come costante riferimento solo le fonti particolari del suo stesso ordinamento, trascurando le leggi dello Stato, non offre un bello spettacolo alla generalità del pubblico, contribuendo indirettamente a mantenere in vita quel trito e per fortuna non sempre e anzi sempre meno vero concetto per cui gli avvocati sono una «corporazione» chiusa e che sa guardare solo dentro a sè stessa, senza aprirsi al resto della comunità.
Come avvocati, abbiamo bisogno di ben altro respiro.
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