Ci si riferisce a quell’andirivieni di tesi, molte delle quali campate in aria, che miravano, “sotto mentite spoglie”, a trasferire sostanzialmente una parte dei ricavi delle farmacie alle parafarmacie, ma soprattutto alla Grande Distribuzione Organizzata.
In tutto questo bailamme si è trascurata l’importanza di circoscrivere bene il problema, preferendo il richiamo a tesi populisticamente accattivanti, del tipo quelle ripetute in lungo e in largo dal leader del PD Pierluigi Bersani. Tesi francamente penalizzanti per il futuro dell’assistenza farmaceutica, premianti solo per chi guadagnerebbe qualche corner in più, da utilizzare soprattutto come fiore all’occhiello, quasi a volere guadagnare quella parvenza professionale che è ben lontana dall’immagine che la GDO si è costruita nel tempo. In senso scadente è stata, infatti, utilizzata sino ad oggi l’opportunità della vendita dei SOP e OTC, venduti in campagna natalizia con sconti del 50%, a tutto svantaggio della salute dei cittadini, affascinati dagli “affari”. Una nuova occasione per il mercato dei grandi numeri che potrebbe tra l’altro riscontrare l’interesse anche degli ingenti capitali della delinquenza organizzata.
Immaginiamo cosa avrebbero detto al riguardo Francesco Crispi nel 1888 e Giovanni Giolitti quasi un secolo fa. Il primo, peraltro, male interpretato da chi vi fatto diretto riferimento in Parlamento, forse perché male imboccato. Si è, invero, fatto un esplicito richiamo a Crispi per dimostrare che la liberalizzazione dell’apertura fosse stata positivamente ideata dal medesimo. Non è proprio così. Primo perché la ratio del legislatore di allora fu quella di porre una seria demarcazione, in ragione della rispettiva autonomia professionale, tra lo “speziale” di allora, che preparava i medicamenti, e il medico che li prescriveva. L’esigenza, dunque, di moralizzare il “mercato” gestito sino ad allora troppo promiscuamente. Secondo perché allo stesso Crispi, ove mai, deve essere ascritta la responsabilità del grave danno provocato “nell’arco di un ventennio di una elevatissima concentrazione di farmacie nelle grandi città o nei centri altamente popolati ed il parallelo abbandono dei centri a bassa densità di popolazione” (fonte: www.salute.gov.it).
A questo punto, è forse il caso di ricordare bene da dove viene e cosa sia il servizio farmaceutico. Ma soprattutto sottolineare che quanto si vuole realizzare oggi poco ha a che fare con la “liberalizzazione” in senso proprio. E non perché lo dicano i farmacisti, ma perché lo sanciscono le leggi!
Da dove viene l’attuale servizio farmaceutico. Dopo l’Unità di Italia intervennero quattro provvedimenti normativi (le leggi: 5849/1988 cd Crispi; 418/1913 cd Giolitti; 475/68 e 362/1991) tutti garanti della diffusione del servizio farmaceutico sul territorio da esercitarsi in regime concessorio. Una opzione giuridica, questa, che riassume in capo allo Stato (prima) e oggi alle regioni la titolarità del relativo esercizio, da effettuarsi direttamente, per il tramite delle farmacie pubbliche o attraverso farmacisti concessionari, in ragione degli ambiti previsti nelle relative piante organiche comunali. Questi sono stati i presupposti che hanno fino ad oggi reso la farmacia italiana il presidio assistenziale più diffuso nel Paese e più apprezzato nel mondo.
Del resto, quanto alle anzidette previsioni legislative, esse hanno ricevuto un unanime riconoscimento di legittimità dal Giudice nazionale del massimo rango ma anche di quello comunitario. Più precisamente,
– la Corte Costituzionale, con la sentenza (e non solo) n. 87 del 10 marzo 2006, ha riconosciuto l’attuale servizio reso dalle farmacie di interesse pubblico e sociale e, pertanto, prevalente sulla tutela della concorrenza e del mercato, da considerarsi “marginale” in relazione alla tutela della salute garantita ovunque;
– la Corte di Giustizia Europea, con le sentenze del 10 giugno 2010, C-570/2007, e del 19 maggio 2008, C-531/2006), ha sancito la legittimità e l’appropriatezza dell’attuale sistema fondato sulla pianta organica, in quanto tale perfettamente compatibile con gli interessi tutelati a livello comunitario.
Sgretolare l’attuale sistema, per mere speculazioni elettoralistiche, ove si intende far passare il farmacista per il “riccone di turno”, senza tenere conto dello stato di difficoltà in cui versa la maggior parte delle farmacie italiane a causa della consistente riduzione dei margini (dovuta allo sconto ex lege al SSN del 10% medio, alla vendita per conto in netta espansione e al massivo ricorso ai generici) e dei ritardi di pagamento, rappresenta un esempio di grave irresponsabilità politica. Un gesto sconsiderato che potrebbe determinare un reale pericolo per l’occupazione garantita dal sistema medesimo!
Liberalizzazione. La foga di sostenere e a tutti i costi la tesi liberalizzatrice ha causato una grave inappropriatezza anche nel linguaggio. Invero, nulla ha a che fare la liberalizzazione con quanto si sta tentando di fare, anche perché sarebbe grave il contrario, considerato che liberalizzare significa nella sostanza rimuovere la tutela statale/regionale dal settore economico/professionale interessato. Ciò sarebbe, peraltro, in contrasto con la Costituzione (art. 32) e con le leggi vigenti.
Ciò che si sta proponendo è, difatti, solo la degradazione nella vendita di una certa tipologia di farmaci, sottraendola dal regime concessorio per consentirla in regime meramente autorizzatorio e promiscuo.
Liberalizzare è tutt’altra cosa. Sarebbe, per esempio, toccare i grandi interessi che stanno dietro le 675 società degli enti locali che gestiscono in esclusiva l’energia, i trasporti e i servizi pubblici locali. Ma anche quelli che sono dietro la gestione autostradale, i servizi postali , le benzine, il sistema oligopolistico delle banche e banchieri, eccetera eccetera.
Nel caso delle farmacie se riforma c’è da essere, occorre ripensare al suo sistema, magari razionalizzandone la distribuzione e accelerando i concorsi per le sedi vacanti e/o di nuova istituzione.
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