Con tale pronuncia, possiamo dire che si è giunti, forse, all’assetto completo e definitivo – in senso giuridico – degli effetti connessi all’istituto della c.d. “espropriazione illegittima” (che negli anni ha assunto varie denominazioni da ritenersi oggi abbandonate o comunque superate anche se taluno continua ad usarle per comodità espositiva: occupazione usurpativa; accessione invertita; occupazione acquisitiva o appropriativa; espropriazione sostanziale; etc.).
Trattasi – come noto – di quella forma di ablazione che tanti problemi ha posto sin dal lontano 1983 allorchè – come si ricava dalla lodevole ricostruzione del giudice della vicenda – la Cassazione con la nota sentenza 1464/83 abbandonò il precedente orientamento che consentiva di adottare provvedimenti espropriativi in sanatoria di aree trasformate e rimaste senza titolo oltre i termini fissati e le regole normativamente previste.
Da quella data, determinandosi oggettivamente un “vuoto” formale, vi è stato un susseguirsi di svariate proposte e soluzioni, talvolta opinabili e spesso contestate (per tutte, come ricorda il relatore, quella dell’accessione invertita ex art. 938 codice civile impropriamente applicata al diritto e alle opere pubbliche) fino alle ripetute condanne del nostro Stato da parte della Corte Europea dei diritti dell’uomo per sistematica violazione della Convenzione europea del 1950 in tema di tutela del diritto di proprietà.
Per ovviare a tale carenza formale di un titolo, era stata invero, elaborata una “legale via d’uscita” (come si esprime la giurisprudenza) con l’art. 43 DPR 327/2001 (T.U. espropri) con la possibilità di adottare – in presenza dei presupposti e delle condizioni ivi previste – un formale provvedimento d’acquisizione della mano pubblica delle aree modificate senza titolo, al fine di adeguare la situazione di fatto a quella di diritto.
Pur essendo stata, tale disposizione, dichiarata incostituzionale con la sentenza 293/2010 da parte della Corte Costituzionale (invero, annullata per eccesso di delega e non espressamente – anche se qualche dubbio rimane – in ordine al suo contenuto), il legislatore ha provveduto a rimpiazzarla allo stesso fine (che poi vi sia perfetta coincidenza con la precedente è da discutere) con il nuovo art. 42-bis del T.U. espropri dichiaratamente reso applicabile “ai fatti anteriori”, (senza che possa, cioè, incidere la prescrizione), e pur sempre costituente legale titolo ablatorio di adeguamento del fatto al diritto.
Senonché il predetto rimedio non è – come a più riprese evidenzia la giurisprudenza – l’unico presente nell’ordinamento allo scopo in parola , potendosi (e fosse dovendosi) sperimentare –in via gradata – altri istituti quali l’usucapione (semprechè ne ricorrano le condizioni), l’accordo/contratto civilistico, la c.d. “riedizione” del procedimento espropriativo (quello classico-formale) prima di giungere al nuovo rimedio dell’art. 42-bis in parola, onde sancire il formale trapasso alla parte pubblica della proprietà che, nella sistemazione sopradelineata, rimane sempre in capo al privato fino a quando non si conclude formalmente la vicenda ablatoria.
Quello che la sentenza in commento sembra apportare come novità – che va sottolineata – a mò di chiusura del sistema – sia pure in un caso in cui era sorto il contenzioso, contenzioso che è agevole ipotizzare sarà sempre più frequente – è la indicazione della temporalizzazione delle fasi progressive attraverso le quali si deve giungere all’esito finale: vale a dire o si giunge entro un termine prefissato all’acquisizione, con gli istituti in precedenza menzionati, delle aree in mano pubblica o si deve procedere alla restituzione delle stesse ai proprietari anche se ciò dovesse costare la distruzione e rimozione – anche i mezzi fragorosi di cui si è detto in epigrafe e con le doverose cautele per la pubblica incolumità – di quanto (illegittimamente) realizzato (nel caso esaminato, una strada aperta al pubblico transito).
Sia consentito, però, di esprimere taluna perplessità su quello che appare un eccesso di formalismo nella tutela del diritto di proprietà in situazioni – come quelle di cui si discute – nelle quali l’esistenza fisica del bene privato è venuto meno e la tutela della proprietà potrebbe ben essere soddisfatta con l’equivalente indennitario e risarcitorio (anche perché si vede normalmente quale, rispetto al legittimo e pieno ristoro, possa essere il reale interesse del proprietario a volere indietro un’area modificata o trasformata e probabilmente per lo stesso ormai priva di utilità.
In questi casi, potrà essere solo un atto canonico/formale a evitare una volontà afflittiva nei confronti di una collettività e quindi di una platea di soggetti beneficiari di un bene adibito a usi pubblici ben più ampia della singola, pur censurabile, amministrazione maldestramente espropriante o basterebbe una unilaterale ricognizione della realtà sostanziale, beninteso trascrivibile nei pubblici registri immobiliari?
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