Il potenziamento dell’effettività della tutela dispensabile in sede straordinaria, che molti studiosi riconducono ad una presunta “giurisdizionalizzazione” del rimedio, può conseguire soltanto da una disciplina positiva inequivoca e allineata ai migliori standard normativi cui è giunto il processo. Le enunciazioni di principio sull’effettività della tutela e sulla ragionevole durata dei procedimenti contenziosi (anche alla luce della giurisprudenza comunitaria) si scontrano, infatti, con un assetto normativo incompiuto, che non offre alcuna garanzia sui tempi e sulle modalità di definizione della controversia. L’esempio più eclatante è offerto dalla tutela cautelare in sede straordinaria, la disciplina del cui procedimento è prevalentemente di fonte giurisprudenziale. Si consideri, inoltre, la fase istruttoria, abbandonata alla variabilità delle prassi ministeriali, o la tutela risarcitoria, governata dall’antistorico criterio del c.d. “doppio binario”. Nonostante tutto, i dati testimoniano la vitalità dell’istituto negli anni recenti e la rilevanza del contributo offerto dalle Sezioni consultive del Consiglio di Stato nell’assicurare la legittimità dell’azione amministrativa.
In attesa di poter statisticamente riscontrare l’effetto dei più recenti interventi normativi, così come metabolizzati dalle Supreme Magistrature, la riflessione sul ruolo che nell’immediato futuro il ricorso straordinario è destinato a svolgere nel sistema di giustizia amministrativa può giovarsi delle autorevoli considerazioni espresse dal Presidente del Consiglio di Stato, Pasquale De Lise, in occasione del suo insediamento: «Il tradizionale strumento del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica ha assunto una nuova collocazione istituzionale, in un contesto in cui l’ordinamento comunitario valorizza sempre di più i rimedi alternativi, le c.d. A.D.R. (Alternative Dispute Risolutions). Nel nostro ordinamento, il rimedio alternativo per eccellenza rispetto al giudizio amministrativo è proprio il ricorso straordinario, che affianca alla tradizionale terzietà della decisione – sulla base del parere, ora vincolante, del Consiglio di Stato – i valori aggiunti dell’economicità e dell’unicità del giudizio». Eppure, lo stesso Presidente De Lise, con un’apparente inversione di rotta, pochi mesi dopo il suo insediamento ha disposto con proprio decreto (n. 103 del 10 dicembre 2010) la trasformazione della terza Sezione del Consiglio di Stato da consultiva a giurisdizionale, premurandosi di precisare che «la trasformazione della III Sezione non vale, però, a sminuire la rilevanza della funzione consultiva del Consiglio di Stato, la quale è mutata nel tempo: da consulenza all’amministrazione per singoli atti, anche di gestione, a strumento alternativo di tutela del cittadino (col ricorso straordinario al Presidente della Repubblica)».
Una cosa è certa, nel prossimo futuro, se il volume dei ricorsi straordinari non accennerà a ridursi, presso le due sezioni consultive rimaste si accumulerà un arretrato difficile da gestire, con buona pace dei “valori aggiunti dell’economicità e dell’unicità del giudizio”. Se è vero, come sostenuto dal Presidente De Lise, che «la giurisdizione va considerata come una risorsa non illimitata, da riservare alle questioni più rilevanti. Pertanto, nell’interesse del cittadino, occorre introdurre forme di tutela che ne assicurino la soddisfazione, con le dovute garanzie di terzietà, al di fuori del sistema processuale ordinario», desta forti perplessità la soluzione auspicata: la reintroduzione del “previo ed obbligatorio esperimento di ricorsi amministrativi”, quale filtro pre-giudiziale. Come autorevolmente osservato, nell’esperienza concreta il ricorso amministrativo ordinario non ha dato buona prova di sé, per la difficoltà o il disinteresse dell’amministrazione a rivalutare le proprie determinazioni. Il ricorso amministrativo ordinario è, pertanto, strumento inattuale ed inadeguato ad offrire una risposta compiuta alla domanda di giustizia del cittadino; inoltre, il suo previo ed obbligatorio esperimento si limiterebbe a rinviare, più che a scongiurare, la proposizione del ricorso giurisdizionale, costringendo il cittadino a patire ulteriori ritardi nella definizione della controversia.
Pare proprio che il difficile collocamento sistematico del ricorso straordinario continui a porlo al centro di tensioni contrapposte, quasi a rifletterne l’irrisolto conflitto tra sostanza giurisdizionale e forma amministrativa. Nelle parole (e nelle decisioni) del Presidente De Lise si coglie, infatti, la stessa ambivalenza che da sempre caratterizza l’approccio all’Istituto: mentre si compie un passo avanti nel consolidamento del suo ruolo nell’ambito degli strumenti di giustizia amministrativa, se ne compie uno indietro, sottraendogli spazi e/o occasioni applicative; doppiezza che è riscontrabile sia sul fronte normativo, così come su quello giurisprudenziale e dottrinale.
Sul piano normativo, la legge n. 205/2000, pur introducendo la tutela cautelare in sede straordinaria, tralascia di disciplinarne la procedura; pochi anni più tardi, la legge n. 69/2009, nel prevedere la vincolatività del parere espresso dal Consiglio di Stato, esalta “l’anima” giurisdizionale dell’Istituto, ma poco dopo il Codice del processo amministrativo ne comprime il raggio operativo entro i confini della giurisdizione amministrativa (art. 7, comma 8, c.p.a.). Le Sezioni Unite ammettono (per la prima volta, dopo sessant’anni – sez. un., 28 gennaio 2011, n. 2065) l’esecuzione coattiva della decisione straordinaria, ma col regime della c.d. “ottemperanza attenuata”, riservata ai provvedimenti non definitivi (art. 112, comma 2, lett. b, c.p.a.). La dottrina, dal canto suo, resta costantemente divisa tra i fautori della compiuta metamorfosi giurisdizionale dell’Istituto e gli irriducibili assertori della sua persistente natura giustiziale. Allo stato, dunque, in assenza di un risolutivo intervento riformatore, il tentativo di cogliere dei segnali attendibili sul futuro del ricorso straordinario è destinato inesorabilmente a fallire.
L’istituto in esame, stante la sua gratuità (nessun contributo unificato e non necessarietà dell’assistenza di un difensore), ha da sempre svolto anche una funzione sociale, costituendo il mezzo di reazione, nei confronti dell’azione amministrativa reputata illegittima, privilegiato dai cittadini meno abbienti (tanto da guadagnarsi l’appellativo di “ricorso dei poveri”). Ecco perché lo ius superveniens induce ad un’amara riflessione conclusiva in proposito. Potrebbe uno Stato democratico, sebbene impegnato a fare cassa per resistere ad una crisi economica incalzante, permettersi di imporre un pedaggio alle classi sociali più povere per l’accesso alla giustizia amministrativa? Cosa resterebbe della sacralità dei principi sanciti dalla Carta Costituzionale (artt. 3 e 113), se per prima la pubblica amministrazione potesse andare esente da censure di legittimità quando, la modestia del torto arrecato al cittadino o la debolezza economica di quest’ultimo, rendano impraticabile il ricorso al giudice? Simili quesiti andrebbero rivolti al nostro legislatore che all’art. 37, comma 6, lett. s), del decreto legge 6 luglio 2011, n. 98 (convertito, con modificazioni, nella legge 15 luglio 2011, n. 111), ha introdotto il contributo unificato di seicento euro per il ricorso straordinario. Evidentemente, è parso un lusso insostenibile dallo Stato italiano la previsione di un rimedio che costi “solo il foglio di carta per ricorrere”.
In attesa che della giurisdizione il ricorso straordinario possa condividere l’ampiezza e l’effettività della tutela, si è provveduto, quantomeno, ad estendergliene il prezzo.
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