Confesso di aver apprezzato la proposta che risultava in linea con quanto si è fatto in altri paesi europei (Belgio, Danimarca, Regno Unito, Grecia…).
Nel nostro paese vi è una forte disomogeneità nella distribuzione dei Comuni per Regione. In due sole Regioni, il Piemonte e la Lombardia, si concentra infatti circa un terzo dei Comuni italiani. Il problema si pone per i Comuni di ridotte dimensioni demografiche. Alla fine del 2010 quelli con meno di 1.000 abitanti erano 1.946 e per quasi la metà appartenevano alle due suddette Regioni. In Provincia di Torino, che conta 315 Comuni, ve ne erano ben 113!
L’inadeguatezza dimensionale dei piccoli Comuni, alcuni dei quali hanno solo alcune decine di abitanti, ha ricadute negative di varia natura che non vi è bisogno di richiamare. In passato si è perciò cercato di superare il localismo e di dare un forte impulso all’aggregazione dei Comuni per fornire migliori servizi ai cittadini. Una legge del 1990 stabilì infatti, stanziando contributi straordinari, che “in previsione di una loro fusione, due o più Comuni contermini, appartenenti alla stessa Provincia, ciascuno con popolazione non superiore a 5.000 abitanti, possono costituire un’unione per l’esercizio di una pluralità di funzioni o di servizi”. Precisava inoltre il legislatore che entro dieci anni dalla costituzione dell’unione si doveva procedere alla fusione; in caso contrario l’unione veniva sciolta. Peccato che una norma successiva abbia soppresso l’obbligo della fusione per cui oggi ci ritroviamo con una sorta di quarto livello istituzionale, l’”Unione di Comuni”.
Cortei di Sindaci a difesa del gonfalone, retorica esagerata del municipalismo, hanno di fatto determinato l’accantonamento della proposta
Sapete come è andata a finire? Dall’inizio di quest’anno al 9 ottobre, data di riferimento del censimento in corso, il numero dei Comuni italiani è passato da 8.086 a 8.092!
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