La mancata presentazione dell’istanza di prelievo al Giudice amministrativo non preclude il diritto all’equo indennizzo per l’eccessiva durata del processo, quantomeno per i processi attivati prima del 2008.
E’ possibile dimostrare che il ricorrente ha promosso una lite temeraria o che la parte ha artatamente resistito al solo fine di perseguire proprio il diritto all’equa riparazione, o infine provare il c.d. “abuso del processo”.
La I sezione civile della Cassazione, con sentenza depositata il 14 settembre 2011 n. 18808/11 ha ribadito il principio secondo cui il risultato negativo nel merito del procedimento giurisdizionale non incide sul diritto all’equo indennizzo richiesto per la durata eccessiva del processo.
Da tempo la Cassazione ha affermato che la durata del processo amministrativo presupposto dell’istanza di equa riparazione, di cui alla legge n. 89/2001, va calcolata nel periodo intercorrente dalla data di deposito del ricorso che lo instaura alla sua definizione o a quella della domanda di equo indennizzo alla Corte d’appello competente, per i giudizi ancora pendenti.
Inoltre, e per quel che più conta, è stato affermato che la mancata presentazione o il ritardo nell’utilizzo di strumenti sollecitatori come l’istanza di prelievo non bloccano il diritto all’equa riparazione.
In materia di durata ragionevole del processo e di valutazione del comportamento delle parti, in base al disposto dell’art. 175 c.p.c., è al giudice che viene attribuito l’esercizio di tutti i poteri intesi al più sollecito e leale svolgimento del procedimento, sicché a carico delle parti processuali vi è si il dovere di non porre in essere comportamenti dilatori, ma non quello di dare impulso al processo, attraverso richieste di anticipazioni di udienza od altre istanze dirette a velocizzarne i tempi.
La presentazione dell’istanza di prelievo può rilevare solo per apprezzare l’entità del pregiudizio subito dalla parte che l’ha omessa o ritardata e quindi al limitato fine di accertare l’entità della violazione della Convenzione e non per il computo della durata del processo.
Nel caso di specie, la domanda di indennizzo del ricorrente era stata respinta dalla Corte di appello di Milano, malgrado il processo, solo in primo grado, dinanzi al Tar del Lazio, fosse durato 8 anni. Conclusione ribaltata dalla Cassazione secondo la quale i ritardi nella presentazione dell’istanza di prelievo non possono compromettere il diritto all’equa riparazione, e ciò posto che non può cadere sul ricorrente la responsabilità per il superamento del termine ragionevole.
Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione, nel riprendere le pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, si inserisce nell’orientamento volto limitare interpretazioni restrittive nell’applicazione del diritto all’equa riparazione per la durata eccessiva dei processi (durata del processo).
Il bello è che nonostante i principi giuridici dettati dalla Cassazione, l’Italia è in cronico ritardo, non solo nell’amministrazione della giustizia, ma anche – e soprattutto – nella liquidazione degli indennizzi riconosciuti dalla Legge Pinto.
Proprio di recente (il 21 dicembre 2010) la Corte Europea per i Diritti Umani di Strasburgo ha sanzionato l’Italia per il ritardo nel pagamento degli indennizzi dovuti come risarcimento per la lentezza con cui procedono i processi. I giudici hanno sentenziato in particolare riguardo a 475 casi in cui i ricorrenti sulla base della legge Pinto avevano ottenuto tra il 2003 ed il 2007 indennizzi del valore tra i 200 ed i 13.749,99 Euro. Indennizzi che nel 65 per cento dei casi sono stati pagati con almeno 19 mesi di ritardo, in altri casi anche un ritardo di quattro anni e infine in altri casi ancora non sono ancora stati pagati. La Corte ha rilevato un problema generalizzato per quanto riguarda questi casi nel nostro paese, tanto che al 7 dicembre 2010 erano state presentate alla Corte 300 denunce riguardanti, tra le altre cose, ritardi nel pagamento di indennizzi nel quadro della Legge Pinto.
Non solo. Proprio con riferimento ai processi dinanzi al giudice amministrativo, occorre ora fare in conti con l’innovazione introdotta dal D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 54, comma 2, convertito nella L. 6 agosto 2008, n. 133, in virtù del quale “la domanda di equa riparazione non è proponibile se nel giudizio dinanzi al giudice amministrativo in cui si assume essersi verificata la violazione di cui alla L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, comma 1, non è stata presentata un’istanza ai sensi del R.D. 17 agosto 1907, n. 642, art. 51, comma 2“.
Orbene, pur se il problema dell’applicabilità della riferita norma è stata risolta dalla Cassazione richiamando i principi generali dell’applicazione della legge nel tempo, rimane evidente la volontà del legislatore di limitare il più possibile l’applicabilità della Legge Pinto e per conseguenza di eludere la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ed il riconoscimento del diritto all’equa riparazione sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6, paragrafo 1, della medesima Convenzione.
Sicchè, se per il passato è possibile ribadire il principio di matrice giurisprudenziale secondo cui, in difetto di una disciplina transitoria e di esplicite previsioni contrarie, la legge processuale trova immediata applicabilità soltanto con riferimento agli atti processuali successivi all’entrata in vigore della legge stessa, come ha affermato anche la Corte costituzionale (sentenza n. 155 del 1990), e quindi con esclusione di quelli anteriormente compiuti, i cui effetti, in virtù del principio tempus regit actum, restano regolati dalla legge sotto il cui imperio sono stati posti in essere (Cass. n. 6099 del 2000), rimane aperto, in ragione della novella della legge n. 133/2008, il problema per il futuro.
In ogni caso, ed anche al di fuori del processo amministrativo, sembra rilevante sottolineare, con riferimento alla pronuncia dettata dalla Cassazione, l’affermazione, ancora una volta, del principio della correttezza e della buona fede processuale, il quale come tale, alla stregua del principio costituzionale del giusto processo, censura tutti quei comportamenti che si traducono in abuso delle facoltà giuridiche e più nello specifico degli strumenti processuali.
A ben vedere, infatti, il diritto all’equa riparazione di cui all’art. 2 Legge n. 89/2001, spetta a tutte le parti del processo, indipendentemente dal fatto che esse siano risultate vittoriose o soccombenti e dalla considerazione economica o dall’importanza sociale della vicenda, a meno che l’esito del processo presupposto non abbia un diretto riflesso sull’identificazione o sulla misura del pregiudizio sofferto dalla parte in conseguenza della eccessiva durata della causa, come quando il soccombente abbia promosso una lite temeraria o abbia artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire la irragionevole durata di esso, o comunque quando risulti la piena consapevolezza della infondatezza delle proprie istanze o della loro inammissibilità. Di tutte queste situazioni, comportanti abuso del processo e perciò costituenti altrettante deroghe alla regola della risarcibilità della sua irragionevole durata, deve dare la prova la parte che le eccepisce (l’Avvocatura dello Stato, n.d.r.) per negare la sussistenza dell’indicato danno.
In altre parole, con la dimostrazione del fatto che l’istante si è reso responsabile di lite temeraria o, comunque, di un vero e proprio abuso del processo, dovrà essere escluso il diritto all’equa riparazione, e ciò in dipendenza alla esplicitazione delle ragioni che inducono a ritenere dalle concrete emergenze processuali che il ricorrente era consapevole dell’infondatezza della pretesa azionata nel processo.
In conclusione, l’affermazione del principio per cui il danno non patrimoniale conseguente alla durata eccessiva del processo, in relazione alla enunciazione costituzionale contenuta nell’art. 111, che tutela il bene della ragionevole durata del processo come diritto della persona, sulla scia di quanto previsto dalla norma della CEDU, si arresta di fronte al postulato generale secondo cui gli individui non devono rendersi responsabili di liti temerarie, ponendo in essere, in termini di abuso del processo, l’esercizio distorto del diritto di agire in giudizio.
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