La proposta è stata accolta da un coro di critiche che, concentratesi quasi tutte sulla necessità di non abbandonare le certificazioni antimafia (per evitare di depotenziare la lotta contro la criminalità organizzata), hanno bocciato l’idea del Ministro.
La cosa che desta maggiormente stupore, in verità, è che la proposta di Brunetta sia stata stigmatizzata, senza essere davvero capita.
Il ragionamento del Ministro è semplice: i certificati sono un costo e una perdita di tempo inutili perché, nel 2011, le Amministrazioni quelle informazioni possono averle lo stesso e in modo più efficiente. Come? Grazie alle nuove tecnologie.
Siamo stati abituati a vivere e lavorare in un contesto in cui il certificato (cartaceo) era – ed è tuttora – un elemento importantissimo nei rapporti con l’Amministrazione. Ma cos’è un certificato? Si tratta di un documento in cui un ufficio pubblico rilascia un’attestazione relativa alla conoscenza di fatti, atti o qualità riportati in registri pubblici (basti pensare, ad esempio, alla residenza oppure allo stato civile).
Di norma, questi certificati vengono prodotti ad altre Amministrazioni che, per rilasciare un determinato provvedimento amministrativo, devono verificare il possesso dei requisiti previsti dalla legge.
Non v’è chi non veda, quindi, che il certificato (cartaceo) è tipico di un’Amministrazione ottocentesca, in cui l’unico modo per far circolare l’informazione presente negli archivi o nei registri di un Ente è quella di riportarla in un “pezzo di carta” che il cittadino avrà cura di consegnare ad un altro Ente.
Ma siamo sicuri che questo sistema sia ancora attuale nel 2011? La risposta è: assolutamente no!
Se i certificati erano un “male necessario” fino a qualche anno fa, adesso sono un istituto che deve essere superato.
Nel nostro Paese, la “lotta ai certificati” è stata avviata da uno dei più grandi innovatori del nostro sistema amministrativo: il prof. Franco Bassanini. Fu lui che, alla fine degli anni ’90, avviò una serie di riforme per la semplificazione, tra cui quella delle c.d. “autocertificazioni”; come noto, si tratta della possibilità per il cittadino di sostituire il certificato con una dichiarazione in cui, sotto la sua responsabilità, dichiara il possesso di determinati stati, qualità personali e fatti già a conoscenza di una Pubblica Amministrazione.
L’autocertificazione è stata uno snodo molto importante per la semplificazione: in pochi anni, ha dimezzato il numero dei certificati richiesti e ridotto i costi della burocrazia per Amministrazioni, cittadini e imprese. Eppure, anche per il prof. Bassanini, si trattava di un passaggio intermedio: anche l’autocertificazione, infatti, ha i suoi lati negativi (il rischio di false autodichiarazioni, la necessità per gli Enti di dover procedere a controlli).
L’approdo finale del processo di semplificazione è la c.d. “decertificazione”, vale a dire la “morte giuridica del certificato”, resa possibile grazie all’interconnessione delle banche dati delle diverse Amministrazioni.
Con le Amministrazioni in rete il cittadino non deve fare altro che rivolgere la propria richiesta all’Ente; gli uffici faranno – in back office – tutte le ricerche nelle banche dati e sulla base di queste ricerche risponderanno alla richiesta.
In quest’ottica vanno le norme che sono state approvate negli ultimi anni: dal Testo Unico sulla Documentazione Amministrativa (che all’art. 43 prevede che “le amministrazioni pubbliche e i gestori di pubblici servizi non possono richiedere atti o certificati concernenti stati, qualità personali” e fatti che siano attestati in documenti già in loro possesso o che comunque siano tenute a certificare) al Codice dell’Amministrazione Digitale (che, agli artt. 50 e ss., prevede che qualunque dato trattato da una Pubblica Amministrazione debba essere “reso accessibile e fruibile alle altre amministrazioni quando l’utilizzazione del dato sia necessaria per lo svolgimento dei compiti istituzionali dell’amministrazione richiedente”).
Alla luce di questo breve excursus appare chiaro come la proposta del Ministro Brunetta avesse l’obiettivo di accelerare la transizione verso un’Amministrazione (digitale) che non ha più bisogno dei certificati, non perché non fa più controlli, ma perché li fa in maniera più efficiente.
I certificati, infatti, non sono solo l’emblema di una burocrazia ottocentesca e vessatoria ma di un’inefficiente organizzazione amministrativa; decretare la fine dei certificati (e delle autocertificazioni) consentirebbe di conseguire notevoli risparmi in termini di tempi e costi.
Basti pensare, ad esempio, che nel nostro Paese ogni anno vengono ancora richiesti circa 35 milioni di certificati, con un costo che – indipendentemente dalle marche da bollo applicate – si aggira intorno ai 13/14 euro per certificato (si pensi alle spese di trasporto per raggiungere gli uffici e ai tempi impiegati in coda); per cittadini e imprese, quindi, l’eliminazione dei certificati significherebbe un risparmio di circa 400 milioni di euro.
Per non parlare del costo che l’attività certificatoria ha per l’Ente (soltanto in parte ripagato con il costo della marca da bollo) e della riduzione dei tempi amministrativi (per mesi i procedimenti amministrativi rischiano di rimanere fermi solo perché si è in attesa dei “certificati” da parte di altri Enti, quando con l’interrogazione di una banca dati l’Ente potrebbe – in pochi minuti – acquisire gli elementi di cui ha bisogno).
Ecco perchè la proposta di eliminare i certificati, senza ulteriore indugio, merita di essere discussa con attenzione.
Una società che non vuole (o non sa) abbandonare i certificati è una società (un’Amministrazione) vecchia, incapace di ripensarsi, di organizzarsi in modo diverso e più efficiente, una società prigioniera della logica dell’ “abbiamo sempre fatto così”.
Molti anni fa, Luigi Einaudi (il primo Presidente della nostra Repubblica) parlava della “libidine documentaria” e la definiva come la “la libidine di chi si compiace di moltiplicare i documenti allo scopo preciso di recar noia a colui il quale ha l’audacia di chiedere alla pubblica autorità la licenza di esercitare un proprio diritto“.
E’ frustrante constatare come questa citazione sia incredibilmente (e drammaticamente) attuale e come poco si voglia fare per cambiare – davvero – le cose.
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