L’illecito tramite attività di linking: una giurisprudenza romana consapevole dei principi del diritto

Il caso

Nel 2012 veniva creata una pagina su Facebook avente ad oggetto il cartoon Kilari. Nella pagina FB venivano postate immagini della cantante della sigla (V Ponzone) e dei link che conducevano -su YT- a video riproducenti la sigla del cartone. Insieme a pesantissimi insulti rivolti all’interprete e alla stessa RTI.

Nonostante l’invio di almeno tre diffide, FB ha mantenuto pubblica la pagina in questione per oltre due anni.

Il Tribunale delle Imprese di Roma con decisione del 15.2.2019, accertando la responsabilità del social network Facebook per l’ntervenuta pubblicazione di contenuti audiovisivi di terzi tramite link non autorizzati conducenti ad una piattaforma terza (YouTube), ha recepito integralmente il decisum della giurisprudenza della CGUE in tema di pubblicazione di opere di terzi tramite attività di linking non autorizzato dal titolare dei diritti (la sentenza C-527/15 sul caso “Filmspeler” e la recentissima sentenza C- 161/17 sul caso Renckhoff del 7 agosto 2018). Più precisamente l’attività di linking non autorizzato rappresenta, pertanto, un atto di comunicazione al pubblico che, come tale, presuppone -ai fini dell’utilizzo dei materiali protetti- la preventiva autorizzazione del titolare dei diritti.

La Corte romana ha richiamato il considerando 48 della direttiva 2000/31, il quale prevede la possibilità, per gli Stati membri, di “chiedere ai prestatori di servizi che detengono informazioni fornite dai destinatari del loro servizio, di adempiere al dovere di diligenza che é ragionevole attendersi da  loro  ed è previsto  dal  diritto  nazionale,  al  fine  di individuare e prevenire taluni tipi di attività illecite”.

Scarica il testo della sentenza 

Ne segue che “la conoscenza dell’illiceità dei dati memorizzati, comunque acquisita (anche mediante un’informazione fornita dalla persona lesa), fa sorgere la responsabilità civile e risarcitoria del prestatore di servizi”. L’inerzia protratta in modo ingiustificato è sempre fonte di responsabilità, indipendentemente ed ancor prima dall’esistenza di un ordine dell’Autorità, come ripetutamente affermato dalla Corte di Giustizia. Quindi, a prescindere dal ruolo svolto nel caso concreto da Facebook, “anche il cd. hosting provider passivo non appena ricevuta la notizia dell’illecito commesso dai fruitori del suo servizio, deve attivarsi  al  fine  di  consentire la  pronta rimozione  delle  informazioni illecite  immesse sul sito  o  per impedire l’accesso ad esse, in quanto egli é tenuto a svolgere la propria attività economica nel rispetto di quella diligenza che è ragionevole attendersi per individuare e prevenire le attività illecite specificamente denunciate”.

Sotto questo profilo Facebook ha contestato l’idoneità delle diffide trasmesse da RTI, sostenendo che le stesse non fossero sufficientemente dettagliate in quanto non contenevano gli URL dei contenuti censurati. Tale difesa è stata ritenuta dalla Corte “del tutto priva di pregio giuridico”. Secondo il Collegio giudicante “l’indicazione dell’URL costituisce un dato tecnico che non coincide con i singoli contenuti lesivi presenti sulla piattaforma digitale, ma rappresenta soltanto il “luogo” dove i contenuti sono reperibili e, quindi, non costituisce un presupposto indispensabile per la loro individuazione”.  

L’onere di allegazione più che semplificato viene ricondotto nell’alveo delle regole delle processo civile. Onus probandi incumbit qui agit. E l’indicazione anche di una sola Url chiarisce che un illecito si sta perpetuando e l’onere probatorio così viene sicuramente assolto.

 

 

Corrado Marvasi

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