Ma andiamo con ordine. L’ultima presa di posizione della Germania contro la policy del social network risale alla fine di agosto quando il settimanale tedesco Der Spiegel, intercettando (si presume) una circolare interna alle istituzioni inviata dal Ministero per la Difesa dei consumatori e l’agricoltura, ha resa noto l’invito del Ministro Ilse Aigner a rimuovere dai siti governativi i link alle pagina facebook, i pulsanti Like e le eventuali fanpage di organi istituzionali e governativi. La Aigner, inoltre, avrebbe suggerito ai suoi colleghi di abbandonare Facebook per dare il buon esempio ai cittadini.
Più scalpore aveva sollevato ancor prima Thilo Weichert, garante della privacy del lander Schieswing-Holstein, con la sua decisione di bandire letteralmente le fan page e i pulsanti Like da tutti i siti pubblici istituzionali e aziendali del territorio. In questo caso, però, non si era trattato di un semplice invito bensì di un vero e proprio ordine con termine perentorio 1 settembre 2011 e sanzioni fino a 50.000,00 euro.
Altro episodio ancora antecedente ha riguardato il tanto discusso riconoscimento facciale, una delle ultime chiacchierate novità del social network, oggetto di una rigido schieramento contrario da parte di John Casper, commissario di Amburgo per la protezione dei dati e la libertà d’informazione.
In tutto ciò, a nulla sono servite le proteste di alcuni utenti insorti contro quella che è stata vista come una vera e propria censura a Facebook.
La questione del rispetto della normativa comunitaria in tema di privacy ha raggiunto anche le sedi giudiziarie. In una decisione del 14 marzo 2011, la n. 91 O 25/11, il LG di Berlino, investito di un procedimento per concorrenza sleale nei confronti di un’azienda che utilizzava il tasto Mi piace, aveva rigettato le accuse di violazione delle normative sulla concorrenza ma sollevato perplessità sul rispetto delle leggi sulla privacy da parte di Facebook, riservandosi ulteriori indagini.
Queste ripetute prese di posizione della Germania si basano sulle asserite violazioni degli standard di privacy comunitari da parte del colosso Facebook il quale raccoglierebbe, in maniera costante e senza la consapevole partecipazione degli utenti, enormi quantitativi di dati personali che vanno dagli indirizzi IP, alle preferenze dei singoli utenti, ai tempi di permanenza sulle pagine aziendali sino alla raccolta di delicati dati biometrici. Questi elementi, aggregati e organizzati, permetterebbero di creare dei veri e propri profili degli utenti, monitorati a loro insaputa e sfruttati per fini economici e di marketing, in violazione dei diritti dei consumatori e, più in generale, dei cittadini.
Inoltre, Facebook è accusato di trasferire i dati degli ignari utenti negli Stati Uniti, e quindi al di fuori della giurisdizione comunitaria, senza richiedere le dovute autorizzazioni. I dati, poi, sarebbero conservati per un periodo esageratamente lungo che potrebbe superare anche i 24 mesi.
I portavoce di Zuckemberg hanno sempre rispedito al mittente le accuse affermando con veemenza la sicurezza del trattamento dei dati e confermando che qualunque informazione raccolta, come gli indirizzi IP, vengono distrutte entro 90 giorni.
Questa volta, però, la tattica delle istituzioni tedesche volta a sottrarre preziosi utenti al social network, ha avuto un effetto diverso dal consueto telegrafico comunicato.
A giudicare dalle prime notizie che circolano in rete, la paura di perdere iscritti e il rischio di un effetto a catena della campagna di sensibilizzazione dei cittadini, avrebbe convinto i vertici dell’azienda a raggiungere un accordo che prevede l’adozione di misure di sicurezza ad hoc per la Germania. A riprova di ciò, il recente viaggio in Germania di Richard Allan, responsabile Facebook per l’Europa, e le sue dichiarazioni di apertura alle iniziative di autoregolamentazione.
Se, quindi, si può segnare un punto a favore della Germania, resta da chiedersi se il problema fondamentale sia la violazione delle norme da parte di Facebook, la disinformazione dei cittadini o, semplicemente, la loro scelta cosciente di pagare con la “violazione della privacy” tutta una serie di servizi più o meno utili forniti gratis o, per lo meno, pagati con i propri dati personali.
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