Permessi 104, assistenza personale: il ricorso in Cassazione
Questo il pensiero della Cassazione nella sentenza n. 23891/2018 pubblicata il 2 ottobre scorso. Secondo la Suprema Corte il concetto di assistenza personale dev’essere inteso in senso ampio, dovendosi configurare l’abuso dei permessi solo qualora il lavoratore li utilizzi per altre attività, estranee all’aiuto in favore del disabile nell’attendere alle faccende quotidiane.
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La controversia giunta all’esame della Cassazione trae le mosse dal licenziamento per giusta causa di un dipendente cui il datore aveva contestato l’utilizzo dei permessi 104 per fini estranei all’assistenza dei familiari disabili (nello specifico madre e sorella).
Dalla fase istruttoria era emerso che nei periodi di fruizione dei permessi il soggetto si era dedicato ad una serie di incombenze in favore dei familiari, come fare la spesa o recarsi allo sportello Postamat (ove la madre aveva acceso un libretto di risparmio postale).
Soccombente in primo e secondo grado il datore ricorreva in Cassazione.
Permessi 104, assistenza personale: il parere della Cassazione
La Cassazione, nel rigettare il ricorso, ha evidenziato, come da precedenti sentenze, che la condotta del lavoratore subordinato che si avvalga del “permesso di cui all’art. 33, L. n. 104 del 1992 non per l’assistenza al familiare, bensì per attendere ad altra attività, integra l’ipotesi di abuso di diritto, giacché tale condotta si palesa nei confronti del datore di lavoro come lesiva della buona fede, privandolo ingiustamente della prestazione lavorativa in violazione dell’affidamento riposto nel dipendente ed integra, nei confronti dell’Ente di previdenza erogatore del trattamento economico, un’indebita percezione dell’indennità ed uno sviamento dell’intervento assistenziale”.
Permessi 104, assistenza personale: aiuto non continuo né esclusivo
La stessa Cassazione ha già avuto modo di chiarire (sentenza n. 54712/2016) che l’assistenza al familiare non deve necessariamente essere svolta durante l’orario di lavoro, considerato che i permessi sono studiati per permettere al beneficiario, afferma la Corte, di avere “a disposizione l’intera giornata per organizzare al meglio l’assistenza in modo tale da potersi ritagliare uno spazio per compiere quelle attività che non sono possibili (o comunque difficili) quando l’assistenza è limitata in ore prestabilite e cioè dopo l’orario di lavoro”.
Ne consegue che nei giorni di permesso l’assistenza non dev’essere continua ed esclusiva, essendo sufficiente che la stessa sia prestata con costanza e con una flessibilità dovuta alle esigenze del richiedente.
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E’ necessario che l’assenza del dipendente sia collegata o comunque conseguenza delle necessità di cura e aiuto del familiare, come il ritagliarsi del tempo per la propria vita sociale, cui il richiedente avrebbe difficilmente potuto dedicarsi dopo il lavoro.
Secondo la Cassazione infatti (sentenza n. 4106/2016) l’art. 33 della L. n. 104/92 dev’essere interpretato come norma che tutela gli interessi della persona con handicap e riconosce una serie di benefici a favore delle persone che ad essa si dedicano.
Tuttavia, ha ammonito la Suprema Corte (sentenza n. 54712/2016), che la possibilità di dedicarsi ad impegni estranei all’assistenza del familiare, non deve tradursi nell’interpretare i giorni di permesso esclusivamente come periodi di ferie, cui il dipendente può attingere a proprio piacimento, durante i quali non si dedichi ad alcuna attività in favore dell’assistito.
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