Con recente sentenza 13789 del 2011, la Cassazione torna a pronunciarsi sulla legittimità dei controlli del datore di lavoro sui comportamenti infedeli del dipendente.
Si afferma, in particolare, che l’articolo 2 dello Statuto dei Lavoratori, nel limitare la sfera di intervento delle guardie giurate a finalità di tutela del patrimonio aziendale, non vieta il ricorso da parte del datore di lavoro ad agenzie investigative private “restando giustificato l’intervento in questione non solo per l’avvenuta perpetrazione degli illeciti e l’esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che degli illeciti siano in esecuzione”.
Unica condizione inderogabile di legittimità dei controlli investigativi è che essi non siano mirati a realizzare un controllo sull’attività lavorativa vera e propria o sui lavoratori genericamente considerati, e che l’attività di indagine abbia ad oggetto specificatamente le prestazioni di quel dipendente sospetto di porre in essere comportamenti penalmente rilevanti.
Si tratta a dire il vero di un principio di diritto ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità (tra le altre, Cass. n. 3590 del 14 febbraio 2011; Cass. n. 20722 del 2010; Cass. n. 18821 del 9 luglio 2008; Cass. n. 9167 del 7 giugno 2003) che consente di delineare uno specifico regime di utilizzabilità della prova contro il dipendente, acquisita al di fuori dei requisiti di cui all’’art. 4 della legge n. 300 del 1970, nel senso che tale utilizzabilità – e quindi il presupposto giudizio affermativo di liceità e di ammissibilità nel giudizio civile e penale – dipende strettamente dal tipo di addebito mosso al dipendente.
Prove lecite utilizzabili
L’addebito al dipendente deve riguardare un illecito penalmente rilevante costituente un vulnus all’integrità del patrimonio aziendale ovvero un comportamento che, pur non ledendo il patrimonio del datore di lavoro, costituisca comunque reato e sia idoneo a ledere il vincolo fiduciario che caratterizza il rapporto di lavoro.
Le prove sarebbero sempre utilizzabili, in quanto lecite anche se conseguite in assenza dei requisiti previsti dall’art. 4 della legge n. 300 del 1970.
Prove illecite inutilizzabili
Le prove diventano illecite e processualmente inutilizzabili – con evidenti conseguenze caducatorie della validità ed efficacia della sanzione disciplinare eventualmente irrogata – laddove l’addebito riguarda una semplice violazione di obblighi di diligenza e/o più genericamente contrattuali del dipendente, priva del carattere dell’illiceità o non rilevante sul piano penale.
In tale ipotesi, si rientrerebbe certamente nell’ambito di applicazione dell’art. 4 della legge n. 300 del 1970, con tutte le conseguenze che dalla violazione di tale norma possano derivare al datore di lavoro, sia in termini di sanzione penale (ai sensi del combinato disposto degli artt. 114 e 171 del d. lgs. n. 196 del 2003, nonché dell’art. 38 della legge n. 300 del 1970) che in termini di consumazione di una condotta antisindacale (ai sensi dell’art. 28 della legge n. 300 del 1970).
Si realizza in tal modo un equo bilanciamento tra contrapposte esigenze di tutela giuridica di altrettanti valori rilevanti per il nostro ordinamento (la dignità del lavoratore e la integrità del patrimonio aziendale, latamente inteso).
A ragionare diversamente, si giungerebbe all’inaccettabile paradosso giuridico di rilasciare in via preventiva un pericoloso salvacondotto alle purtroppo non rare manifestazioni di infedeltà dei dipendenti garantendo una sostanziale impunità a condotte penalmente rilevanti, oltre che odiose sul piano sociale.
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