La U.I.F. a tale proposito ha però chiarito che, allo stato, i prestatori di attività funzionali all’utilizzo, allo scambio e alla conservazione di valute virtuali e alla loro conversione da/in valute aventi corso legale non sono, in quanto tali, destinatari della normativa antiriciclaggio e quindi non sono tenuti all’osservanza degli obblighi di adeguata verifica della clientela, registrazione dei dati e segnalazione delle operazioni sospette.
Bisognerebbe dunque prevedere che gli obblighi in materia di antiriciclaggio possano essere posti anche sulle imprese che forniscono servizi relativi alle criptovalute, analogamente ad altri Paesi, quali Francia e Canada, dove una simile equiparazione degli intermediari di criptovaluta ai fornitori di servizi di pagamento è già prevista. L’anonimato dei bitcoin si basa del resto sull’utilizzo di pseudonimi: la rete Bitcoin utilizza pseudonimi non direttamente collegati all’utente.
Quando i bitcoin sono scambiati, vengono spostati da un indirizzo a un altro, e un registro pubblico decentralizzato registra detto trasferimento. Nella comparazione con il denaro contante emerge come l’anonimato sia inferiore per vari ordini di motivi:
1) l’utilizzo di pseudonimi non prevede anonimato ma solo riservatezza dei propri dati personali;
2) appropriate tecniche di digital forensic ricostruiscono il traffico dati;
3) tutte le transazioni sono sempre a disposizione di tutti, in forma chiara e trasparente;
4) la block chain lascia traccia eterna di tutti i passaggi di bitcoin, dall’attribuzione al miner (colui che lo “estrae”) fino al possessore attuale;
5) nel momento in cui i bitcoin sono scambiati in valuta corrente, il denaro è gestito da istituzioni finanziarie che dovrebbero identificare l’utente;
Solamente il contante è quindi veramente anonimo, visto che il possesso vale titolo e non vi è alcuna registrazione in merito al cambiamento di proprietà. Vero è però che è difficile, se non impossibile, associare un nome a un indirizzo bitcoin.
Quelli su cui concentrare l’attenzione dovrebbero essere quindi gli scambiatori (“exchanger”), coloro cioè che convertono la valuta virtuale in reale e che sono gli unici soggetti che trattano in moneta reale o in altra valuta virtuale. Gli stessi, cambiando le criptovalute in moneta reale, effettueranno trasferimenti di denaro verso conti correnti di persone identificate. Pertanto la regolamentazione degli scambiatori di bitcoin (e criptovalute in generale) potrebbe avere il massimo effetto con il minimo investimento di risorse e concentrazione dei controlli.
Peraltro in USA e già da tempo, gli scambiatori di valuta Bitcoin attuano le regole Antiriciclaggio. Bisognerebbe dunque in tal senso stabilire con norma che le società che operano professionalmente nell’acquisto e vendita di criptovaluta debbano essere assimilabili ai soggetti di cui all’art. 11, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 21.11.2007, n. 231, provvedendo, pertanto, agli obblighi di adeguata verifica della clientela, di registrazione, nonché di segnalazione delle operazioni sospette.
Di recente, peraltro, la stessa Commissione Europea ha analizzato i rischi relativi a questo aspetto, all’interno di una comunicazione indirizzata al Parlamento e al Consiglio relativa al “piano d’azione per rafforzare la lotta al finanziamento del terrorismo”.
In questa comunicazione vi è un brevissimo paragrafo dedicato alle criptovalute, in cui si può leggere quanto segue: “Esiste il rischio che le organizzazioni terroristiche sfruttino i trasferimenti di valute virtuali per dissimulare movimenti finanziari. Le operazioni effettuate con le valute virtuali, in effetti, pur venendo registrate, non sono oggetto di un meccanismo di segnalazione equivalente a quello predisposto nel sistema bancario tradizionale per individuare le attività sospette. Attualmente le valute virtuali non sono regolamentate a livello dell’UE. Come primo passo la Commissione proporrà di porre gli scambi anonimi di valuta sotto il controllo delle autorità competenti – estendendo il campo d’applicazione della direttiva antiriciclaggio alle piattaforme di scambio di valute virtuali –, e di assoggettarli a controllo nel quadro delle legislazioni nazionali in materia di lotta contro il riciclaggio del denaro e il finanziamento del terrorismo. Inoltre, applicando alle piattaforme di scambio di valute virtuali le regole in materia di autorizzazione e vigilanza della direttiva sui servizi di pagamento si favorirebbe un migliore controllo e una migliore conoscenza del mercato. La Commissione esaminerà questa opzione in maniera più approfondita, e valuterà anche l’opportunità di includere i “fornitori di portafogli” di valute virtuali”.
E in tale ambito, la Commissione Parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sul altre associazioni criminali ha infine correttamente evidenziato che “in attesa che la comunità internazionale e le istituzioni europee adottino le opportune misure regolatorie del fenomeno delle “virtual currencies”, appare necessario che nelle more sia valutata dal legislatore nazionale l’adozione di specifiche misure antiriciclaggio”. E il tempo gioca contro. Secondo una previsione del World Economic Forum del 2015, infatti, entro dieci anni, le tecnologie che si basano sui principi della blockchain registreranno le transazioni finanziarie correlabili al 10% del PIL mondiale. Un fiume di denaro senza controllo?
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