L’americana Qmee ha stimato che ogni 60 secondi vengono effettuate 2 milioni di ricerche su Google, inviate 204 milioni di email e che ogni secondo sono pubblicati 41 mila post su Facebook.
Si tratta di un po’ di dati per capire la mole di informazioni personali che sono in giro per la rete. Al riguardo basta pensare inoltre agli account di Twitter, Linkedin, Facebook, Instagram, agli acquisti fatti su Amazon, eBay, alle camere prenotate su Booking, Airbnb, alla musica ascoltata su Youtube, Spotify, alle recensioni su Tripadvisor e così via.
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Esistenza digitale vs esistenza fisica?
Tale fenomeno dimostra una vera e propria esistenza digitale distinta ed autonoma rispetto a quella fisica: la massa di tutti questi dati in effetti costituiscono lo “specchio digitale” delle persone.
Tuttavia si tratta di un insieme indistinto di dati che per ora non sono raccolti e gestiti unitariamente.
Quando vengono caricate delle informazioni su internet esse finiscono nel mare magnum della rete e lo stesso “autore” potrebbe non recuperarle più. Le stesse sono conservate solo se l’azienda che gestisce il sito dove viene compiuto l’upload se ne occupa o se l’utente le immette in un apposito cloud.
Il difficile controllo che l’internauta ha sul flusso di dati personali caricati ha portato la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (13 maggio 2015 C-131/12) a configurare il c.d. diritto all’oblio ovvero il diritto dell’utente ad essere cancellato e dimenticato dal web.
Le persone forniscono i propri dati il più delle volte spontaneamente ed inconsapevolmente: il lettore di quest’articolo pensi ad esempio all’informazione che ha fornito nel cliccare sul presente contributo; altre volte invece gli utenti condividono informazioni personali al fine di ottenere taluni vantaggi (apparentemente) gratuiti: l’informazione diventa in tal caso moneta di scambio, il prezzo da pagare per ottenere i servizi voluti.
Quali sono i problemi?
Il problema sta nel fatto che tali dati finiscono nelle mani di aziende private e costituiscono per esse risorse preziose per vendere spazi pubblicitari: acquisiti tali dati queste imprese vengono a conoscenza dei gusti delle persone e di conseguenza possono meglio indirizzare gli spot a loro diretti. Infatti basta pensare a quante pagine su internet suggeriscono la musica da ascoltare, i prodotti da acquistare, il lavoro al quale candidarsi, gli amici da aggiungere finanche il partner.
Si crea un “subconscio digitale” che l’azienda che gestisce il sito conosce meglio dell’utente. Tali suggerimenti da una parte sono molto comodi per l’internauta il quale vede personalizzati i servizi offerti, dall’altra però lo passivizzano conformandolo a sé stesso.
Per tali ragioni è importante per l’utente che tali informazioni restino sotto il suo controllo.
Allo stato attuale esistono aziende che recuperano e conservano i dati del popolo del web gestendoli in maniera separata: in effetti non vi sono ancora delle banche dati che raccolgano integralmente tutti i dati digitali che una persona carica sul web.
Non esiste ancora un servizio che faccia con i dati caricati in rete quello che le banche fanno con i soldi: manca un soggetto terzo ed imparziale di gestione e conservazione dei dati personali (Domingos).
Si può immaginare un nuovo business: aziende private, terze rispetto alle aziende direttamente interessate a tali dati (come Google, Facebook etc.), potrebbero svolgere un servizio di raccolta e gestione unitaria.
L’affidamento a privati dell’intero patrimonio di dati personali se da una parte consentirebbe la migliore gestione degli stessi non tutelerebbe maggiormente l’utente rispetto ad oggi.
Qual è la sfida dunque del giurista contemporaneo?
Il custode super partes dei dati digitali potrebbe essere il giurista magari anche solo in veste di supervisore dell’operato delle aziende private che potrebbero essere le effettive depositarie degli stessi. Per una piena e seria tutela degli utenti occorrerebbe un soggetto tecnico che sia garante dell’utilizzo delle informazioni personali condivise sul web: a tal fine il giurista preferibilmente dovrebbe rispondere del suo operato allo Stato più che a privati. Simili soluzioni sin da subito potrebbero applicarsi su scala ridotta: basti pensare all’enorme numero di password che un individuo ha da gestire.
Si sottolinea che il giurista si confronta quotidianamente con l’evoluzione del mondo digitale e con le nuove esigenze poste dalla vita virtuale delle persone.
A dimostrazione di quanto si afferma occorre evidenziare che è già vigente una disciplina in materia di domicilio digitale. Si tratta dell’indirizzo di posta elettronica certificata che può essere indicato da ciascun cittadino (facoltativamente) al fine di facilitare le comunicazioni con la Pubblica Amministrazione.
Ancorchè la disciplina è di recente introduzione è verosimile che in futuro il domicilio digitale diventerà un vero e proprio elemento identificativo dei soggetti alla stregua della residenza o domicilio fisico.
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