A inizio Millennio, il Paese si avvicinava stanco a nuove elezioni, dopo un quinquennio in cui si erano succeduti tre presidenti del Consiglio, appartenenti alla stessa coalizione vittoriosa nel 1996: Romano Prodi, Massimo D’Alema e Giuliano Amato, che mise la firma sul rinnovamento della Costituzione.
Dal 2013, è accaduta una successione del tutto simile: prima Enrico Letta, poi Matteo Renzi e infine Paolo Gentiloni, premier paciere e quasi per caso, un po’ come Amato sedici anni fa dopo le dimissioni di D’Alema (che perse le ragionali, pari a Renzi il referendum). Serviva, allora come oggi, un traghettatore, per accompagnare il Paese all’appuntamento elettorale nella sua scadenza naturale, malgrado i cambi della guardia a palazzo Chigi, e insieme dare tempo alla coalizione di riorganizzarsi.
I partiti dello schieramento di centrosinistra apparivano in forte crisi di consenso, ma soprattutto di identità: dopo quattro anni di governo, il malcontento serpeggiava per l’opinione pubblica, a causa degli interventi modesti sulla politica economica e il misero fallimento della Bicamerale. La vittoria della ritrovata coalizione tra Lega Nord, Forza Italia e An sembrava già inevitabile, anche sull’onda di temi dal fortissimo appeal popolare, proprio come la secessione o devolution nel lessico bossiano.
Accadde così che la maggioranza di centrosinistra, anziché proporre una soluzione alternativa alla questione sollevata dal Senatùr, finì sciaguratamente per inseguirla, partorendo un pastrocchio che raggiunse esattamente gli scopi opposti rispetto a quelli per cui era stata creata: non semplificò i rapporti tra Stato e Regioni, anzi li rese assai più complessi, ma soprattutto non tolse al Carroccio un solo voto. E l’anno successivo, infatti, Berlusconi rientrò a palazzo Chigi in carrozza.
Ed ecco che, diciassette primavere dopo, la storia sembra ripetersi in maniera quasi identica. Le elezioni sono alle porte e il centrosinistra non ha la certezza di tornare al governo, soprattutto per l’onda montante del MoVimento 5 Stelle e a causa dell’onnipresente – sui media – Matteo Salvini. Così, di fronte ai fatti di cronaca cavalcati dai vari partiti per invocare leggi più severe, ecco che è uscita questa bozza di riforma della legittima difesa, già un boomerang per il trattamento diverso tra furti subiti di giorno o di notte.
Lo ha intuito il leader della Lega, che infatti ieri si è sbracciato pur di essere immortalato da fotografi e operatori televisivi urlando “Vergogna!” ai fautori di questa proposta, che reca i voti di Pd e alfaniani. Tutti gli altri, si sono già smarcati perché, con la potenza debordante dei social media, si è già capito che il treno andrà a sbattere. Alla maggioranza non resta che congelare la riforma in Senato, sperando l’argomento passi in fretta nel dimenticatoio. L’impressione, però, è che si sia donato un asso in mano agli avversari, in vista della prossima torna elettorale.
Cavalcare i cavalli altrui è sicuramente un errore madornale in politica, specie a pochi mesi dalle elezioni. Ma non imparare dalle lezioni del passato lo è ancora di più.
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