Cultura per pochi

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Federculture ha presentato il dodicesimo rapporto annuale “Impresa Cultura” al Mudec di Milano. Dai dati del 2015 si registra un incremento significante della spesa delle famiglie italiane nella cultura; un segno più che non si registrava da tempo e che prosegue in tutto il 2016.

Nel dettaglio, come è stato precisato nel corso dei lavori di presentazione,  la spesa delle famiglie italiane per cultura e attività ricreative ha subito un incremento del 4%, per  un totale di 67,8 miliardi. Si è tornati sul binario giusto, dopo il biennio disastroso 2012-2013,  registrando una spesa di 4 miliardi in più, +6%, rispetto 2013. Bene anche la rigenerata tendenza positiva nella fruizione, infatti: gli italiani sono tornati a teatro (+2%), nei musei (+4%), e nei siti archeologici (+5).

Nel rapporto, non mancano però alcune incrinature che rovinano il quadro della situazione italiana, insolitamente, troppo roseo. Tra queste c’è il dato che vede la cultura ancora confinata tra fasce  ridotte della popolazione: la, così detta, “astensione culturale” che interessa il 18,6%  dei cittadini. Ovvero quasi 11 milioni di italiani che non vanno al cinema, teatro, musei, concerti, né leggono libri. Proprio riguardo alla lettura i dati sono a dir poco imbarazzanti: solo il 40% delle persone da 6 anni in su (all’incirca 24 milioni) legge almeno un libro l’anno. A coronare queste criticità c’è lo sviluppo culturale del nostro paese a due velocità; con il Mezzogiorno sempre un passo indietro nelle statistiche.

Ultimi dati Eurostat

Non si possono poi dimenticare gli ultimi dati Eurostat, dove l’Italia ricopre lultimo posto in Ue per percentuale di spesa pubblica destinata all’istruzione (7,9% nel 2014 a fronte del 10,2% medio UE) ed è al penultimo posto per quella destinata alla cultura, scalzando di una posizione solo la Grecia. Questo è quanto emerge dai dati Eurostat 2014 sulla spesa governativa suddivisa per funzioni.

Il tema di riflessione nei prossimi anni sarà il concetto di “impresa culturale”, vale a dire come coniugare il processo culturale con la sua gestione e dar vita a un’infrastruttura organizzativa – ha dichiarato Claudio Bocci, direttore di Federculture, durante la  presentazione del rapporto. Eppure promuovere la tutela e lo sviluppo della cultura italiana dovrebbe essere una priorità naturale, in grado di togliere il sonno a coloro che siedono sugli scranni del “mal” governo. Progettualità e formazione dovrebbero essere i motori congeniali del cambiamento; se non si fanno più progetti a lungo termine nelle città d’arte, come si può pensare di aumentare in esse l’affluenza dei turisti. Mentre investire sulla formazione vorrebbe  dire: innalzare il livello culturale del paese ma anche creare una nuova classe dirigente costituita da ragazzi con una preparazione a 360°;  e di conseguenza sensibilizzati alle problematiche dei beni culturali.

Si badi bene che seppur si volesse rifuggire dall’idea di arte come merce, sarebbe comunque sciocco non considerarla un bene produttivo; e confidare in una sorta di laissez faire  in cui le istituzioni ricoprano il ruolo di meri esattori e non di reali artefici della gestione attiva del patrimonio culturale.Ma allora qual è la sintesi che si può trarre dalla lettura di questi dati?
“Niente nuove, buone nuove!” esclamava  il tenente giapponese Hiroo Onoda che, nel pieno della Seconda Guerra Mondiale, fu inviato in un’isola delle Filippine ad aspettare il ritorno del esercito imperiale. Onoda aspettò  sull’isola per oltre trent’anni dopo la fine della guerra, ancora fiducioso nell’arrivo dell’esercito giapponese. Noi potremmo armarci della stessa “pazienza”?

 

Riccardo Nicolia

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