In effetti è così. Un figlio è tuo se lo cresci, lo sgridi se non mangia, sporca con i pennarelli i muri appena imbiancati e lo aiuti a fare i compiti. Il resto è letteratura da Liala.
Una sentenza dell’ottobre 2016 del TM meneghino solleva alcune perplessità.
Sebbene la sentenza sia puntuale e articolata, mi pare rigida e formale.
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Ma proviamo a riassumere il fatto.
Un uomo avviava una stabile convivenza con una donna, madre di un minore che non aveva mai avuto alcun rapporto con il padre biologico, che fra l’altro, non lo aveva riconosciuto.
Dall’età di due anni il piccolo aveva sempre avuto al fianco il ricorrente e lo aveva identificato come figura maschile di riferimento strutturandosi così un profondo legame, assimilabile a quello fra padre e figlio.
Il ricorrente chiedeva quindi che il legame venisse formalizzato con l’adozione, ai sensi dell’ art. 44 lett. D) L. n. 184 del 1983 (non potendosi procedere ai sensi dell’articolo 44 lett. B) per l’assenza del vincolo matrimoniale con la madre del minore), evidenziando come l’adozione richiesta realizzi il preminente interesse del minore, che costituisce la ratio della L. n. 184 del 1983.
L’uomo affermava che il minore era il perno della convivenza more uxorio tra lui e la madre. Convivenza alla quale il terzo comma dell’articolo 44 farebbe implicitamente rimando, nel precisare che i casi di adozione di cui alle lettere A), C) e D) del primo comma sono consentiti “anche a chi non è coniugato“.
Secondo il ricorrente poteva provvedersi ai sensi della lettera D) del comma 1 dell’articolo 44, in quanto tale previsione normativa (per la quale “i minori possono essere adottati anche quando non ricorrono le condizioni di cui al comma uno dell’art.7: (…..) “D) quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento preadottivo“), “deve essere interpretata letteralmente e cioè deve essere letta nel senso di impossibilità di affidamento preadottivo sia per motivi di fatto sia per motivi di diritto (conseguente alla dichiarazione di adottabilità di un minore abbandonato)”. D’altro canto, una diversa lettura avrebbe contrastato con i principi espressi dalla Convenzione Europea dei Diritti Umani.
Il Tribunale meneghino non accoglie la tesi sulla base di queste considerazioni: “In tema di adozione di minori, il sistema normativo introdotto dalla L. n. 184 del 1983, tuttora vigente e che individua nella famiglia tradizionalmente intesa, formata da una coppia di sesso diverso unita in matrimonio il luogo degli affetti in cui può essere meglio assicurata la crescita dei minori, la prevede specificamente, e in via generale, con riferimento ai minori che sono stati dichiarati in stato di adottabilità perché privi di genitori in grado di provvedere alla loro crescita ed educazione, con pienezza di effetti solo da parte di coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni tra i quali non sussista e non sia sussistita negli ultimi tre anni separazione personale neppure di fatto (con le eccezioni di cui all’art. 25 4 comma, che la consentono anche alla persona singola la cui condizione di singolo ha però luogo per cause imprevedibili nel corso dell’affidamento preadottivo – morte o sopravvenuta incapacità di uno dei coniugi affidatari o intervenuta separazione tra di loro-, e quindi a processo adottivo già avviato da parte della coppia, di un minore che ha sofferto un abbandono da parte dei genitori accertato giudizialmente)… Non è infine chi non veda come il riconoscimento della possibilità di adozione da parte del compagno del genitore finisca col profilarsi come confliggente col disposto legislativo, che prevede espressamente come requisito per l’adozione il matrimonio dell’adottante con il genitore del minore.
Il Procuratore della Repubblica, concludendo in senso conforme, ha però sollevato dubbi sulla legittimità costituzionale dell’art. 44 lett. B), L. n. 184 del 1983, nella parte in cui non prevede l’adozione da parte del convivente more uxorio del genitore (biologico o adottivo) del minore, instando per la proposizione di questione di legittimità costituzionale. Secondo il Procuratore, la disciplina di detto articolo contrasterebbe con l’art. 30 della Costituzione.
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Il Collegio rigetta l’istanza del Procuratore.
Il vincolo matrimoniale stabile, per un non irrilevante periodo di tempo, è stato, ed è tuttora, considerato ancora in generale esprimente di regola un effettivo legame affettivo, di comunione morale e materiale; mentre la convivenza presenta difficoltà di definizione, di accertamento, di riconoscibilità dei legami familiari, se non è stata almeno previamente regolata proprio al fine di permettere la valutazione della sussistenza dei presupposti minimi di garanzia per l’adottando.
Non rilevante si presenta poi il richiamo alla recente L. n. 173 del 2015 sulla “continuità degli affetti”, in favore degli affidatari ex art. 4 L. n. 184 del 1983, che non innova l’esistente.
Fin qui il fatto.
Cosa lascia perplessi questo provvedimento?
Il fatto che pare che il Collegio non abbia tenuto conto della strada indicata dalla stessa Corte Costituzionale che ha affermato nel 1999 e quindi, non tanto recentemente che i principi costituzionali esprimono soltanto “una indicazione di preferenza per l’adozione da parte di una coppia di coniugi, essendo prioritaria l’esigenza, da un lato, di inserire il minore in una famiglia che dia sufficienti garanzie di stabilità, e dall’altro di assicurargli la presenza, sotto il profilo affettivo ed educativo, di entrambe le figure dei genitori.” Anzi, addirittura, precisato questo criterio preferenziale, la Corte costituzionale ha apertamente affermato che i principi costituzionali “non si oppongono a un’innovazione legislativa che riconosca in misura più ampia la possibilità che”, nel concorso di particolari circostanze, “l’adozione da parte di una persona singola sia giudicata la soluzione in concreto più conveniente all’interesse del minore.”
Quindi, sul punto, il provvedimento non è calzante nelle sue motivazioni.
Ma detto ciò, si può forse, trovare una soluzione di compromesso al complesso problema dell’ampliamento dei soggetti legittimati ad adottare, proprio partendo dal diritto alla continuità affettiva del minore, su cui poggia la L. 19 ottobre 2015, n. 173 sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare, che invece, il TM non accoglie.
In base a tale legge, qualora il minore già affidato sia dichiarato adottabile, gli affidatari devono essere considerati in via preferenziale ai fini dell’adozione.
Il favor nei confronti di tali soggetti è posto a tutela dell’interesse del minore e dipende dal fondamentale rilievo che per lui assume il legame affettivo insorto per effetto dell’affidamento, valore tenuto nella massima considerazione sia dall’ordinamento comunitario, sia dalla legge italiana: si rammenti che l’art. 8 Cedu, tutela, per pacifica interpretazione della Cedu, anche i legami “familiari” di fatto e, secondo la nozione amplissima di famiglia recepita dalla Corte di Strasburgo, nella sfera applicativa della norma devono ritenersi ricomprese anche le relazioni affettive che sorgono in virtù di un provvedimento di affidamento familiare.
Il diritto del minore a conservare le relazioni affettive per lui significative, a prescindere dai rapporti di parentela, è il perno della recente riforma della filiazione e la giurisprudenza[1] ha più volte affermato che il loro disconoscimento, anche quando il legame sia soltanto di fatto, pregiudichi l’interesse del minore.
Si legge nella relazione al progetto di legge presentato dall’on. Marzano: “La famiglia affidataria può… fare domanda di adozione – prevedono i progetti di legge – solo se sussistono i requisiti previsti dall’art. 6 della l. n. 184 del 1983, ossia solo nel caso in cui si tratti di coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni. E i bambini affidati a famiglie con coppie conviventi? E i bambini affidati a persone singole? Non stabiliscono anch’essi legami affettivi che meriterebbero di essere preservati? Come spiegare loro che, nel caso in cui siano stati affidati a una coppia sposata tutto andrà bene, forse resteranno con essa e non saranno costretti a ricominciare con altre famiglie, mentre nel caso in cui siano stati affidati a una coppia non coniugata o a una donna o a un uomo che vivono da soli non hanno garanzie per il futuro, i loro legami affettivi non valgono nulla e dovranno cominciare tutto di nuovo presso un’altra famiglia?”.
La dottrina[2] ci ha insegnato che l’adozione ha una matrice solidaristica e con essa adempie anche un “dovere di solidarietà verso i minori in stato di abbandono.”
Che cos’altro può significare alla fine, il best interest child se non anche consentire al minore di conservare i propri essenziali legami affettivi con i membri del nucleo familiare in cui si trova a vivere, evitando il sicuro pregiudizio che gli deriverebbe dalla loro ingiustificata recisione?
Non è forse questa la strada da percorrere?
[1] App. Torino 4 dicembre 2014, in Nuova giur. civ. comm., 2015, 441, che nel caso di minore nato all’estero da coppia omosessuale, ha ravvisato la necessità di “garantire la copertura giuridica ad una situazione di fatto in essere da diverso tempo, nell’esclusivo interesse di un bambino che è stato cresciuto da due donne che la legge riconosce entrambe come madri. Assume rilievo determinante la circostanza che la famiglia esista non tanto sul piano dei partners ma con riferimento alla posizione, allo status e alla tutela del figlio… L’interesse del minore pone, in primis, un vincolo al disconoscimento di un rapporto di fatto, nella specie validamente costituito fra la co-madre e un figlio”
[2] M. Bianca, Diritto della filiazione e diritto alla filiazione, in corso di pubblicazione su Riv. dir. civ. Cfr. anche R. Tommasini, Note introduttive agli artt. 44-55, in Commentario al diritto it. della famiglia, dir. da G. Cian – G. Oppo – A. Trabucchi, Padova, VI, 2, 1993, 458, il quale sottolinea come l’adozione si ispiri al criterio base “della solidarietà sociale e della necessaria garanzia a tutti i soggetti di una crescita armoniosa ed equilibrata che soltanto la comunità familiare può realizzare pienamente”.
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