Addirittura, il New York Times suggerisce che il milionario stia già guardando al dopo elezioni, per sfruttare commercialmente la grande visibilità internazionale ottenuta in questi mesi, prima con le elezioni in seno al partito Repubblicano e poi con la nomination ufficiale. Questa conclusione prende le mosse da alcuni impegni che hanno visto Trump protagonista negli ultimi giorni.
Anziché dare battaglia negli Stati chiave, quelli, cioè, in grado di spostare gli equilibri al voto, il tycoon ha presenziato a cerimonie poco significative in chiave elettorale, come un taglio del nastro nel suo hotel di Washington D.C., oppure sbucando fuori all’improvviso in uno dei suoi resort e golf club.
Insomma, sembra proprio che la scalata del candidato antisistema, protagonista della più discussa campagna americana, sia ormai conclusa. Due sono gli elementi che stanno portando Trump alla disfatta: da una parte, il video scandalo del 2005 diffuso dal Washington Post in cui usa affermazioni oltraggiose verso il genere femminile, e, in secondo luogo, la propria riluttanza ad accettare il risultato elettorale, come dichiarato nel corso del terzo dibattito contro Hillary Clinton.
Due uscite che hanno isolato sempre più il magnate, ormai alle prese con una crociata solitaria, senza gli adeguati appoggi politici e con uno staff ampiamente demotivato alle spalle. Se i suoi spin doctors sembrano sempre più defilati, lasciandolo libero di schiantarsi contro il muro delle elezioni tra pochi giorni, assai più problematica è la sfida che si è aperta all’interno del partito Repubblicano.
All’indomani della diffusione del video shock, infatti, numerosi big dell’elefantino hanno rinunciato a sostenere la candidatura di Trump, cominciando dall’ex segretario di Stato Condoleezza Rice, per passare al veterano e già candidato presidente John McCain, per concludere con lo speaker del Congresso Paul Ryan. Tutti elementi di spicco del Grand Old Party, che hanno scaricato apertamente il candidato, chiedendogli addirittura – nei casi di Rice e McCain – di ritirarsi dalla gara.
La malattia e i sintomi
Più che sulla pelle di Trump – già ampiamente venduta dai vertici del partito, ad eccezione di qualche inflessibile come Rudolph Giuliani – le elezioni del prossimo 8 novembre, allora, potrebbero costare care proprio all’integrità dei Repubblicani. Se, infatti, gli avversari Democratici dovessero guadagnare la maggioranza in uno dei due rami del Congresso, la disfatta per il Gop sarebbe completa.
Eventualità, questa, tutt’altro che remota, dal momento che ai candidati dem basterà mantenere i propri seggi al Senato, guadagnandone appena quattro in più sui 34 in palio. Se davvero Hillary Clinton dovesse stravincere alle presidenziali, è possibile che l’ondata influenzi anche le elezioni “secondarie”, penalizzando fortemente i candidati repubblicani al Congresso.
L’onta di perdere la maggioranza al Senato potrebbe essere la miccia esplosiva all’interno del partito Repubblicano, già profondamente diviso nelle sue varie componenti, come ampiamente dimostrato dal successo di Trump, figlio anzitutto della litigiosità interna. Evangelisti, conservatori, moderati, anti abortisti, tea party e via dicendo, sono alcune delle mille anime che finora hanno convissuto, non senza difficoltà, in un condominio politico ormai ridotto a fazioni in lotta.
È possibile, insomma, che il 9 novembre, di fronte alla disfatta elettorale, le varie faide in corso vengano tutte in superficie, portando al rischio concreto di spaccatura. Non era mai successo, nell’epoca recente, che un candidato presidente venisse sconfessato dai principali leader del proprio partito a ridosso delle elezioni. Ecco perché Donald Trump potrebbe rivelarsi il bubbone che porterà alla morte il partito Repubblicano, per come lo abbiamo conosciuto fino a oggi.
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