È mai successo prima d’ora che un candidato con la nomination in tasca, a poche settimane dal voto, lasci la corsa? Quali sarebbero gli effetti sulla campagna elettorale? E, soprattutto, chi sarebbe il possibile sostituto dell’ultim’ora?
Intanto, è bene sottolineare nuovamente che i sospetti sulle condizioni di salute dell’ex first lady derivano non già da evidenze per così dire “empiriche” – poche ore dopo il malore, Clinton è infatti apparsa in forma sotto casa della figlia a salutare i reporter – ma sul fatto che la diagnosi di polmonite sia rimasta nascosta fino al semi collasso del World Trade Center.
Da quel momento, hanno ripreso corpo timori e dubbi, già emersi in passato, sull’integrità fisica di Hillary Clinton, al punto che lo stesso Trump, tra i primi a insinuare perplessità, ha rivolto all’avversaria auguri di pronta guarigione. “Spero che potrà presenziare al prossimo dibattito”, ha sottolineato il tycoon, abilmente rimasto al di fuori della polemica, lasciando tutti i riflettori – e le congetture – alla nemica democratica.
Cosa succede se un candidato si ritira
Ciascuno dei due grandi partiti americani applica regolamenti molto scrupolosi per lo svolgimento sia dei caucus che delle primarie nei vari Stati: allo stesso modo, esistono anche procedure precise per l’evenienza in cui il favorito debba chiamarsi fuori dalla corsa in extremis. Una condizione imprescindibile è che il candidato non possa in alcun modo venire sollevato dell’investitura se non per una decisione autonoma, o, in caso estremo, per una morte improvvisa. È questo un effetto della nomination che il partito celebra nella propria convention nazionale per incoronare il proprio leader.
Qualora la rinuncia sia inevitabile, si aprirebbero due scenari, molto diversi a seconda della distanza temporale dal voto. Se la decisione arrivasse con discreto anticipo – diciamo un mese o più – allora il partito dovrebbe riunirsi d’urgenza per decretare il nuovo candidato, che potrebbe non essere il vicepresidente in pectore (nel caso di Hillary Clinton, il senatore della Virginia Tim Kaine).
Il preavviso consentirebbe sia di avere i margini necessari per informare i singoli stati federali della nuova candidatura, sbrigando così le varie procedure amministrative, sia di cambiare la nomination per lo sprint finale. Dal punto di vista politico, l’emergenza della situazione porterebbe quasi certamente a chiedere l’intervento di un big in grado di potersi aggiudicare le elezioni con pochissime settimane di campagna. In sostanza, solo tre persone per esperienza e popolarità, allo stato attuale, risponderebbero a questo identikit: il vicepresidente in carica Joe Biden, il segretario di Stato John Kerry e lo sconfitto alle primarie Bernie Sanders. Più suggestiva, ma meno praticabile, l’ipotesi Michelle Obama, che proprio alla convention democratica ha scaldato i cuori dei militanti con un toccante discorso sull’emancipazione femminile.
Nel caso in cui, invece, un partito dovesse rimanere senza candidato a ridosso delle elezioni – o anche subito dopo – nulla verrebbe modificato. Sarebbero dunque i grandi elettori – scelti dal voto popolare, in base al sistema statunitense – a doversi accordare sulla nuova personalità a cui conferire la propria preferenza. In questo caso, il favorito a subentrare potrebbe essere il candidato vice, per rispettare la volontà dei cittadini che hanno accordato fiducia al ticket. Una scelta che sarebbe invece obbligata, come prevede la legge federale, qualora il neo presidente dovesse rinunciare nell’intervallo tra elezione e insediamento.
L’unico precedente
Non è mai accaduto nella storia delle elezioni americane che un front runner alla presidenza abbia dovuto abbandonare la corsa a un passo dalle urne. Un solo caso si avvicina, piuttosto indietro nel tempo, ed è quello di Horace Greeley, candidato liberal-repubblicano alle elezioni del 1872 che lo videro ampiamente sconfitto. Rimasto in sella nonostante le precarie condizioni di salute, morì subito dopo il voto: alla riunione del collegio, i suoi grandi elettori deciso di disperdere le preferenze tra vari esponenti del partito.
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