Gira voce tra i dipendenti delle ex Province regionali, sempre più scoraggiati dallo stato di abbandono in cui versano, che la soluzione ai cronici problemi finanziari dei nuovi enti intermedi dipenda dal completamento della riforma e, soprattutto, dal recepimento dei principi della riforma statale meglio conosciuta come “Delrio”. Ma ciò che preoccupa di più è che questa voce gira anche a Palazzo dei Normanni, cioè nella sede in cui le scelte politiche diventano leggi della Regione Siciliana.
I principi contenuti nella legge “Delrio” che non sono stati recepiti dalla riforma siciliana sono sia di carattere ordinamentale che di carattere finanziario. Ma quelli per i quali lo Stato non sarà disposto a negoziare sono quelli di natura finanziaria, atteso che la competenza esclusiva in materia di ordinamento delle autonomie locali consente alla Sicilia di organizzare e strutturare il proprio sistema istituzionale locale, compresa l’ipotesi del mantenimento di un ente intermedio di area vasta come il libero Consorzio comunale. Questa autonomia non verrà meno neanche nel caso in cui dovesse essere esitato favorevolmente il referendum sulla riforma costituzionale che, com’è noto, prevede anche la espunzione delle Province dall’art. 114. L’effetto di tale espunzione sarà solamente quello di lasciare alle Regioni (a fortiori quelle a Statuto speciale) di differenziare i rispettivi sistemi istituzionali locali secondo le proprie esigenze.
Fatta questa premessa e ritornando al problema iniziale, ciò che sta destabilizzando la riforma dell’ente intermedio non è certamente il mancato recepimento di quegli aspetti connessi alla governance dei nuovi enti (ed oggetto d’impugnativa statale), ma la trama finanziaria che impregna la legge “Delrio” e, soprattutto, la successiva legge di stabilità n. 190/2014 attraverso cui le Province (e le città metropolitane) sono chiamate a concorrere in modo sostanzioso al contenimento della spesa pubblica, tramite l’imposizione di una rilevante riduzione della spesa corrente, progressivamente crescente negli anni compresi tra il 2015 ed il 2017, con obbligo di versamento allo Stato dei risparmi di spesa così ottenuti, quantificati a regime nella misura di tre miliardi di euro.
Orbene, questo salasso che lo Stato ha imposto a tutte le Province, comprese quelle delle Regioni a Statuto speciale, attraverso un’inversione del tradizionale principio che lega le risorse umane e finanziarie alla funzione amministrativa ed una complessa procedura di mobilità (diretta ed indiretta) del personale dipendente, ha sostanzialmente trovato preparato il legislatore siciliano che oltre ad avere potenziato, all’inverosimile, i nuovi enti intermedi, cambiandone la sola denominazione (da Province regionali a liberi Consorzi comunali e Città metropolitane) non ha fatto i conti con le risorse finanziarie. Nelle due leggi di riforma siciliana non si affronta infatti adeguatamente non solo la copertura finanziaria delle nuove funzioni amministrative attribuite ai nuovi enti intermedi, ma neanche la necessaria copertura del crescente vuoto finanziario generato dalla citata legge di stabilità statale.
Per concludere, ed al netto delle irrilevanti questioni oggetto d’impugnativa ad opera del Consiglio dei Ministri, il legislatore siciliano potrà anche permettersi in futuro di mantenere questo “capriccio istituzionale”, ma dovrà dimostrare di avere la capacità finanziaria di sostenerlo.
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