Il Consiglio, con una lettera inviata ai presidenti dei canali televisivi e radiofonici, ha semplicemente vietato agli stessi di pubblicizzare gli accounts o le pagine dei social networks delle proprie trasmissioni utilizzando esplicitamente il nome di un marchio come, appunto, Facebook o Twitter.
La motivazione è che tale comportamento non avrebbe un carattere informativo ma assumerebbe i connotati della pubblicità clandestina vietata dall’art. 9 del decreto n. 92-280 del 27 marzo 1992: “La publicité clandestine est interdite. Pour l’application du présent décret, constitue une publicité clandestine la présentation verbale ou visuelle de marchandises, de services, du nom, de la marque ou des activités d’un producteur de marchandises ou d’un prestataire de services dans des programmes, lorsque cette présentation est faite dans un but publicitaire”.
Subito dopo la diffusione della notizia, sui giornali online e sui blogs francesi e non solo, sono iniziati a circolare i soliti articoli categorici e allarmisti che hanno gridato allo scandalo parlando di censura e di inaccettabile divieto di nominare i social networks.
In realtà le cose non stanno così: il CSA non ha fatto altro che applicare in maniera, a mio parere, più che ragionevole, una normativa in vigore e, concedetemelo, un principio tendenzialmente condivisibile.
Ma cerchiamo di fare un po’ di chiarezza.
In primo luogo è bene precisare che il CSA non ha improvvisamente e di propria iniziativa pensato di analizzare la questione di cui si discute. Come infatti dichiarato da Christine Kelly, membro del CSA, in una intervista rilasciata il 31 maggio scorso a Europe 1, la decisione presa è stata sollecitata da un canale radiotelevisivo il quale si è posto il problema se fosse lecito o meno pubblicizzare i social networks cui era iscritto citandone i nomi. Per avere delucidazioni ha deciso di sottoporre il quesito al Consiglio.
In secondo luogo, come spiegato nella lettera stessa con cui il CSA ha chiarito la propria decisione, nessuno ha mai negato l’importanza e il valore dei social networks. Il loro utilizzo, invece, è incoraggiato dal CSA in quanto “cela participe de l’enrichissement des émissions et permet une interactivité entre les téléspectateurs et les animateurs”.
Il Consiglio, a differenza di quanto è stato scritto da molti, non ha in alcun modo vietato di parlare di Facebook o Twitter ma, più semplicemente, di pubblicizzarli indirettamente e “clandestinamente” mediante l’invito ai telespettatori a seguire le trasmissioni televisive sulle loro pagine Facebook e sugli accounts Twitter citando espressamente i nomi dei social networks che, giuridicamente, sono dei veri e propri marchi.
Il divieto, che discende dall’applicazione della legge e non da una decisione unilaterale del Consiglio, non riguarda esclusivamente Facebook o Twitter, bensì qualsiasi altro social network. La ratio dell’applicazione della norma è quella di evitare una ingiusta discriminazione che, nella realtà, avviene sistematicamente, ossia quella tra un social network maggiormente diffuso e popolare e un altro molto meno conosciuto in quanto, ad esempio, tematico o settoriale.
Da ultimo, la vera essenza della decisione è stata spiegata con un semplice esempio sempre da Christine Kelly nel corso di un’altra intervista rilasciata, questa volta, a France Inter il 30 maggio scorso. Chiarisce la rappresentante del CSA che i telespettatori sono molto più intelligenti di quello che si possa pensare.
Pertanto, per lo scopo che si vuole raggiungere, è parimenti efficace dire “seguite la nostra trasmissione sui social networks” piuttosto che “seguite la nostra fanpage su Facebook e il nostro account Twitter”. L’unica differenza è che con questa seconda espressione si compie un evidente atto di pubblicità clandestina.
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[Foto tratta dal film omonimo diretto da David Fincher]
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