Il primo giugno, infatti, ha dato mandato, all’Avvocatura generale dello Stato, di intervenire all’udienza della Corte costituzionale (martedì 7 giugno) per censurare l’ammissibilità del nuovo quesito sul nucleare, dopo il benestare dell’ufficio per il referendum della Cassazione.
L’Avvocatura dello Stato, conseguentemente, ha chiesto di zittire il popolo. Non c’è da meravigliarsi. Avevamo sentito Berlusconi dire che “i referendum sono inutili e fuorvianti“, ma che il governo, bontà sua, “si rimetterà alla volontà dei cittadini; l’esito del referendum non ha nulla a che vedere con il governo: se i cittadini non vorranno il nucleare, il governo ne prenderà atto“.
Non solo. Il governo tira fuori dal cilindro anche un conflitto di attribuzione, sostenendo che non spetta alla Cassazione il potere di “verificare la permanenza dell’originaria intenzione del legislatore“.
Riassumendo, il governo non poteva estendere il referendum alle nuove norme varate dal governo, né tantomeno valutare la mens legis. E, poi, sempre a dire del governo, siccome le firme erano state raccolte con riguardo all’originario quesito, le stesse non possono ritenersi valide nei confronti di quello riformulato dalla Cassazione.
A volere essere più chiari: non si potrà votare perché il referendum “avrebbe a questo punto un oggetto del tutto difforme rispetto al quesito in base al quale sono state raccolte le firme“. Il quesito, altresì, sarebbe inammissibile perché consultivo o propositivo, piuttosto che abrogativo.
Insomma, il referendum sul nucleare risulta essere indigesto e il governo non riesce a sopportare un tale mal di pancia. Si auspica che lo stesso non venga sedato proprio dalla Consulta, che, dimentica dei propri trascorsi, potrebbe, senza temere l’incoerenza, muovere delle critiche alle statuizioni della Cassazione. Con buona pace per i diritti dei cittadini, che di cavilli giuridici hanno fatto il pieno.
Ma… e non ricordo male, la Corte Costituzionale non è nuova al problema. Dette censure, infatti, sono state già rigettate nel 1978, con la sentenza n. 68, della quale è bene ricordare i passaggi fondamentali:
“La sostanza del quesito che i promotori ed i sottoscrittori di tali richieste propongono al corpo elettorale non é infatti costituita da un atto legislativo oppure da certi suoi singoli disposti; e l’abrogazione di essi non impone di concludere che le rispettive operazioni debbano essere comunque bloccate. É vero che alle leggi, agli atti aventi forza di legge od alle loro singole disposizioni si riferiscono – per identificare i temi del referendum abrogativo – tanto l’art. 75 primo comma Cost. quanto l’art. 27 della legge n. 352 del 1970. Ma é manifesto, perché in ciò consiste il valore politico delle decisioni demandate al popolo, che gli atti o i disposti legislativi indicati in ciascuna richiesta non sono altro che il mezzo per individuare una data normativa, sulle sorti della quale gli elettori vengono in effetti chiamati a pronunciarsi. Se così non fosse, la stessa riproduzione integrale dei contenuti di una legge preesistente, operata da una legge nuova, basterebbe a precludere l’effettuazione del referendum già promosso per l’abrogazione della prima di queste due fonti. Ma una conseguenza così paradossale concorre a far capire quanto poco sia fondata la premessa”.
Inoltre , “Se invece l’intenzione del legislatore rimane fondamentalmente identica, malgrado le innovazioni formali o di dettaglio che siano state apportate dalle Camere, la corrispondente richiesta non può essere bloccata, perché diversamente la sovranità del popolo (attivata da quella iniziativa) verrebbe ridotta ad una mera apparenza.”
Pertanto, “l’unica soluzione possibile consiste nel riconoscere che il referendum si trasferisce dalla legislazione precedente alla legislazione così sopravvenuta (oppure che la richiesta referendaria si estende alle successive modificazioni di legge, qualora si riscontri che esse s’inseriscono nella previa regolamentazione, senza sostituirla integralmente)“.
“In questi termini, l’Ufficio centrale per il referendum é dunque chiamato a valutare – sentiti i promotori della corrispondente richiesta – se la nuova disciplina legislativa, sopraggiunta nel corso del procedimento, abbia o meno introdotto modificazioni tali da precludere la consultazione popolare, già promossa sulla disciplina preesistente: trasferendo od estendendo la richiesta, nel caso di una conclusione negativa dell’indagine, alla legislazione successiva.”
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento