di Massimo Greco
L’infedele esercizio della funzione pubblica sembra essere diventata la regola, infatti non passa giorno senza ascoltare notizie (non solo locali ovviamente) di fatti e misfatti all’interno della Pubblica Amministrazione (P.A.) che puntualmente stimolano l’intervento della magistratura. Ma è proprio la funzione esercitata da quest’ultima Autorità ad animare la presente riflessione. Si è infatti diffusa la pratica di delegare all’Autorità giudiziaria il ripristino della cosiddetta “legalità” all’interno della P.A.. Una vera e propria moda che non ha contaminato solo l’opinione pubblica, ma anche la stessa dirigenza di quelle articolazioni burocratiche vittime dell’infedele esercizio della funzione pubblica. Diffusi sono infatti i casi in cui l’esito delle azioni amministrative e/o disciplinari della P.A. viene subordinato alle decisioni dell’Autorità giudiziaria penale. Niente di più sbagliato, almeno per due ragioni.
La prima, perché gli interessi pubblici affidati dal nostro ordinamento alla cura dell’Autorità Giudiziaria penale sono diversi da quelli affidati alla cura della P.A.. L’Autorità Giudiziaria è obbligata a sanzionare i comportamenti di coloro che nell’esercizio delle rispettive funzioni commettono dei reati. Peraltro, tali comportamenti, per essere sanzionati, devono essere caratterizzati dal dolo, cioè da una condotta manifestamente finalizzata a commettere il reato e non anche da una condotta semplicemente colposa perché non intenzionale. Parecchi sono quindi i casi in cui una grave disfunzione amministrativa, che può anche generare un danno all’erario di notevole entità, non configuri un’ipotesi di reato. Il fatto commesso dal funzionario infedele può infatti essere illegittimo ma non tale da configurare un reato. Ma anche nel caso in cui il funzionario infedele venga penalmente sanzionato, la disfunzione interna alla P.A rimane intatta. L’Autorità Giudiziaria, pertanto, non può sostituirsi alla P.A.. Solo quest’ultima ha l’obbligo di assicurare il buon andamento dell’azione amministrativa e, nei casi di accertato esercizio infedele della funzione pubblica da parte di propri funzionari, deve adottare gli atti cosiddetti di autotutela, finalizzati al ripristino della legittimità amministrativa e finanziaria sia quando la lesione ha contaminato il singolo procedimento amministrativo, sia quando la disfunzione (rectius, mala gestio) contamina l’apparato della P.A..
La seconda, perché il concetto di corruzione, come recentemente concepito dalle norme anticorruzione, è da intendersi in senso lato, cioè comprensivo delle varie situazioni in cui, nel corso dell’attività amministrativa, venga in evidenza un malfunzionamento dell’amministrazione a causa dell’uso a fini privati delle funzioni pubbliche attribuite. L’estensione di tale concetto è ben più esteso del concetto di corruzione così come sanzionato dal Codice penale.
Ma vi è una ragione di fondo a supporto di questo ragionamento e concerne la costituzionale divisione dei poteri coniata da Montesquieu. L’Autorità Giudiziaria appartiene al potere giudiziario mentre la cura, in concreto, degli interessi pubblici affidati alla P.A., appartiene al potere esecutivo. Un’interferenza tra i due poteri finirebbe per generare un vulnus ai principi dello Stato democratico.
Corollario di questa riflessione è che la P.A. deve avere la capacità di sviluppare autonomamente (laddove non ci sono ancora) e potenziare (laddove ci sono già) quegli anticorpi necessari ad assicurare i principi di buon andamento e d’imparzialità richiesti dalla Costituzione a tutti coloro che esercitano una funzione amministrative in nome e per conto della P.A..
“Voglio che attraverso una sorveglianza attiva sia repressa l’infedeltà e venga garantito l’impiego dei fondi pubblici” (Napoleone – settembre 1807)
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