a) La percezione di stare correndo un pericolo per la propria incolumità, la paura e il panico annessi, influiscono sull’azione criminosa, se sì in che modo?
In senso generale possiamo dire che la percezione di correre un pericolo per la propria incolumità aumenta la paura del crimine ed incrementa i rischi dell’azione criminale, anzichè ridurli.
Vediamo di capire meglio perché ed in che modo, iniziando a porre una distinzione fondamentale: quella tra “Terrorismo” e “paura di un attacco terrorista”. Per farlo prendo spunto da un suggerimento passato recentemente dal dott. Marco Vinicio Masoni in un convegno a Ferrara relative al tema della prevenzione dei rischi a cui vanno incontro i ragazzi. Quando parliamo di “Terrorismo” stiamo dicendo che l’evento è già accaduto, che l’atto sovversivo c’è già stato, che la granata è già esplosa, ed in quel caso occorre darsi da fare, bisogna soccorrere, riparare, curare, ricostruire, non prevenire. Così come se ho una neoplasia non la prevengo mangiando in modo sano, facendo sport, non fumando, perchè se il male ormai ce l’ho, non posso più prevenirlo, posso a quel punto semmai solo contrastarlo.
Poi, d’accordo, posso anche fare tutte quelle altre cose: mangiare sano, fare sport, non fumare, etc. ma essenzialmente devo debellare la malattia.è un evento che già appartiene al passato. Lo stesso se parliamo di “terroristi”, anche in quel caso stiamo dicendo che abbiamo già visto che quei soggetti sono pericolosi, minacciosi, criminali e se è cosi, non serve a nulla prevenire il fatto che lo divengano, se ormai già lo sono li blocco, li fermo, li arresto. Quindi occorre essere chiari il Terrorismo non si previene (in Francia abbiamo visto non ci sono riusciti) il Terrorismo, va represso.
Occorrono politiche criminali dure e difficili e spetta alla Politica, agli organi ed enti internazionali occuparsene. Noi cittadini abbiamo semmai “Paura di un attacco terrorista”, temiamo che questo evento pericoloso si realizzi. Ora, se percepisco di correre un pericolo (ovvero se ho un’idea chiara in testa di quel che potrebbe accadere, perchè l’ho già visto o ne ho sentito parlare), che mette a repentaglio la mia vita, il mio potere o il mio patrimonio (economico, culturale, artistico, …), probabilmente sperimento paura. Perchè la paura è l’emozione che abbiamo appreso ad associare ad una tale minaccia.
E che faccio normalmente? Normalmente mi difendo adottando misure che limitano la mia libertà d’azione o quella d’altri e che mi permettono di percepire una maggiore sicurezza. Per esempio installo sistemi di allarme, predispongo apparecchiature di videocontrollo, costruisco barriere che mi proteggono, vado a vivere in un quartiere etichettato come “sicuro” o mi isolo, non esco in certi orari, evito di andare in alcune aree urbane o in certi locali, bar, ristoranti, smetto di usare i mezzi pubblici, etc.
Al tempo stesso tento di farmi idee chiare e precise su “chi sono questi criminali”, cioè metto a punto dei criteri di riconoscimento sociale che mi pemettono facilmente e velocamente di individuare coloro dai quali occorre che io mi difenda. E chi finisce solitamente in queste classificazioni? “Disoccupati”, “poveri”, “stranieri” (ovvero coloro che meno conosciamo, meno ci sono familiari). E’ raro che vengano etichettati come “criminali” imprenditori, benestanti, potenti, concittadini, familiari. Ora cosi facendo alimentiamo i sospetti, manteniamo le distanze, pre-giudichiamo le singole persone in virtù della loro collocazione in una categoria sociale o nel riconoscimento di un ruolo.
Eppure possiamo dire che la correlazione tra devianza e situazioni socio-anagrafico-economiche esistono solo perché narrazioni di senso comune creano la correlazione. Abbiamo prove di persone che hanno perso il lavoro, soggetti in stato d’indigenza economica, persone che hanno alle spalle altri mondi culturali (orientale ed arabo) e che rispettano le regole.”
Quali effetti può avere questo modo comune di pensare? Ve lo mostro riportandovi un esempio.
Negli anni 70, Merton – già noto come sociologo – sta facendo una ricerca sui sindacati americani, vedendo che non ci sono iscritti di colore nel sindacato chiede il perché ai dirigenti nazionali. Questi rispondono che i negri non hanno coscienza di classe e non sanno essere disciplinati. Dopo qualche hanno scoppiano molti moti sociali. I sindacati compatti fanno scioperi organizzati e ottengono i risultati, i negri (allora li si definiva così) invece si muovono non organizzati, sfasciano e incendiano e vengono odiati ancora di più. A quel punto i dirigenti sindacali dicono a Merton: “Visto che avevamo ragione?”. “No!” risponde Merton “E’ non avendoli accettati tra voi che li avete costretti ad agire come cani sciolti.”
I nostri discorsi condivisi profetizzano il futuro. Andiamo incontro a quella realtà sociale che anticipiamo raccontandola come vera. Pertanto, seppur in buona fede, contribuiamo alla costruzione sociale dei “criminali”. Chiaro?
b) Lei parla di terrorismo come atto comunicativo e problema relazionale cosa intende?
Non abbiamo definizioni univoche, certe, vere in assoluto, relative a che cosa sia il “terrorismo”, abbiamo piuttosto letture formulate da osservatori, più o meno esperti, competenti in campi specifici e differenti del sapere (politica, storia, sociologia, antropologia, religione ..). Dicevo prima che noi, come cittadini abbiamo le mani legate, non possiamo farci nulla, spetta ai potenti occuparsene, noi però viviamo sperimentando la paura, se poco consapevoli, ne subiamo gli effetti legati ai discorsi comuni, alle conversazioni e alle comunicazioni mediatiche. Visto da questa prospettiva possiamo considerare il terrorismo come “un atto comunicativo”.
Che vuol dire?
Poichè l’essere umano è un essere sociale, ogni suo comportamento è sempre un atto comunicativo, ovvero dice qualcosa a qualcuno, significa qualcosa per qualcuno, quindi possiamo dire che il comportamento umano veicola sempre un messaggio. Tornando al caso specifico del terrorismo, il fine di tali azioni è quello di terrorizzare (da terrere) la popolazione, il senso comune. Dunque, riducendo all’essenza la faccenda possiamo dire che lo scopo dei terroristi è quello di terrorizzarci. Uno dice: “Beh ovvio”.
Non è poi cosi banale e scontata la cosa, vediamo di capire meglio il perché, illuminando un poco la scena. Noi non interagiamo direttamente con i terroristi, non si tratta di comunicazioni vis- a – vis, noi non li vediamo in faccia, non li conosciamo, non sappiamo chi siano questi soggetti, e questo alimenta sentimenti d’ansia e paura, eppure, la cosa certa, è che loro vogliono comunicare con noi, hanno interesse a farlo e vogliono farci arrivare certi messaggi adatti a terrorizzarci. Che dovranno fare per raggiungere questa loro meta? … distruggere, uccidere, annientare ..
Giusto! Ma non basta, non basta abbattere, demolire, massacrare, se poi nessuno lo viene a sapere. Se voglio terrorizzare qualcuno occorre che quel qualcuno riceva la notizia delle mie malefatte. Hanno dunque bisogno di un pubblico. Serve un pubblico vasto, hanno bisogno della massa, della gente, del popolo.
Ma ancora, la mera notizia sappiamo non terrorizza! I grandi numeri non evocano grandi emozioni, i comunicati stampa non destano furore … Se davvero voglio terrorizzare qualcuno occorre che io mostri a quel qualcuno (usando foto, immagini, video, scritte, simboli, etc. ) di che sono capace; occorre che io faccia vedere a quel qualcuno che potrebbe accadergli di brutto, in altre parole occorra che permetta a quel qualcuno di costruirsi un film, nella sua mente, di quel che potrebbe accadere e di come potrebbero andare le cose. Non solo, occorre che io presenti la notizia, in una forma tale da evocare in chi osserva, in chi legge, in chi ascolta particolari emozioni. Quali? Ovviamente il terrore, il panico che paralizza.
Come fanno a sapere come terrorizzarci? Lo sanno perchè condividono con noi le competenze emotive, ovvero sanno che occorre dire o fare per evocare in noi tali emozioni. Sanno, per esempio, che se vedo decapitare un occidentale da parte di un arabo, estremista islamico per apparenti ragioni culturali, religiose, politiche .. proverò terrore, mentre se vedo un occidentale ammazzare alla sedia elettrica un altro occidentale per ragioni legate all’infrazione di norme proverò altro .. Dunque se intend suscitare nella popolazione il terrore occorre che io costruisca la notizia in maniera tale da poter esser facilmente letta dal pubblico come rappresentativa, emblematica di accadimenti riconoscibili come “atti terroristici” .
Possiamo accedere a queste tonalità emotive, autosuggestionarci, auto provocarci questi stati d’animo, più o meno consapevolmente ogniqualvolta vediamo fotografie, ricerchiamo in internet notizie di questo calibro, vediamo e rivediamo registrazioni di una truce uccisione. Ma attenzione, la nostra reazione comune, quella ovvia, spontanea, scontata, la paura, il terrore, l’immobilità è proprio quello che I terroristi stanno cercando. Dunque, il problema del terrorismo è un problema relazionale, ovvero è un problema messo in atto da due componenti, dai terroristi che agiscono al fine di terrorizzare la popolazione e dalla gente, che mostra i segni della paura e dell’orrore. Detto altrimenti la reazione ovvia, quella spontanea, scontata, quella di senso comune appunto, il terrore, la paura, l’angoscia è proprio ciò che serve ai terroristi, a tutti i terroristi, per raggiungere il loro obiettivo: terrorizzare.
Grazie alla paura che avvertiamo vedendo le immagini di Parigi facciamo contenti i terroristi, grazie all’ansia che avvertiamo vedendo video dell’attacco alle Twin Towers rendiamo contente queste canaglie, grazie al senso profondo di offesa che sperimentiamo leggendo su twitter dell’abbattimento di templi romani, loro possono dirsi soddisfatti, grazie alla rabbia che ingoiamo leggendo che lo Stato Islamico guadagna circa 3 milioni di dollari al giorno per il business del petrolio accresciamo l’orgoglio di questi mascalzoni.
Il terrorismo vuole la paura, l’immobilizzazione, l’arresto, la paralisi dell’altro, della gente comune. Ed è mostrando loro i segni dell’inibizione, del panico che noi facciamo il loro gioco. Le nostre risposte normali, ripeto, quelle ovvie, comuni, scontate, combaciano perfettamente con i loro piani, e quindi, così facendo, alimentiamo il problema anziché risolverlo. Tanto può bastare per far si che un Paese si fermi, si blocchi e arretri.
c) Come riuscire a separare le richieste di sicurezza da parte dei cittadini che sono legate al rischio di un attacco terrorista da quelle che invece sono connesse a problemi di ordine sociale?
Per chi opera nel contesto della sicurezza (e penso quindi soprattutto agli agenti della Polizia Locale) lo si può fare apprendendo come riconoscere nelle richieste dei cittadini le differenze relative a queste tematiche. Un conto è il disappunto nei confronti del vicino di casa di origine araba che non ha la stessa cultura estetica o le stesse visioni morali, un conto sono i conflitti sociali che possono derivare dalle normali difficoltà delle convivenza civile in un quartiere, palazzina, a scuola o al lavoro. Altra cosa è l’aver notato movimenti strani di gruppi di giovani nella propria via o quartiere che stanno progettando come annientarci, ovvero che vogliono attaccare le acquisizioni etiche (non ammazzare, non rubare, etc.), messe a punto dagli esseri umani in secoli di storia.
Il tema della sicurezza è caro all’Occidente e ha preso spazio nei dibattiti e nelle scelte della Politica dal dopo Guerra. Le letture tradizionali passano l’idea che se la gente ha paura della crimine, significa che la criminalità è aumentata, che sono aumentate le azioni criminali in generale. Non è cosi! In realtà, i numeri dei crimini, dei fatti realmente accaduti, non sono cambiati di molto in questi anni. Pensate che addirittura una delle azioni violente per eccellenza, l’omicidio, è diminuita. La gente si ammazza meno. Persistono delle differenze significative tra Nord e Sud, ma in linea di massima questo è il trend.
A che attribuire dunque questi timori?
Non viviamo certo tempi di grandi certezze e sicurezze sociali, pensate a tutti i cambiamenti rapidi e repentini che abbiamo avuto in pochi decenni: all’arrivo delle nuove tecnologie, alle acquisizioni della medicina e al conseguente allungamento dei tempi di vita, ai mutamenti geopolitici, economici, alla facilità degli spostamenti … Accade così che la paura del crimine viene usata dai cittadini oggi come argomento per spiegare e giustificare tutte le paure. Tutte le ansie, le preoccupazioni, i disagi, le difficoltà, le incertezze sociali, vengono interpretate oggi come effetto conseguente all’ “aumento della criminalità” (o del terrorismo).
d) Quali sono quindi in concreto le strategie che noi tutti, in quanto cittadini, possiamo mettere in atto contro il senso di paura?
La paura a livello soggettivo la si supera riconoscendo e accettando di aver paura, e mostrando il coraggio di fare ciò che piace, interessa o si deve fare. Se le paure risultano fortemente limitanti il mio suggerimento è quello di rivolgersi a un esperto.
A livello comunitario credo che nei prossimi anni dovremo fare tutti lo sforzo di porre maggiore attenzione al nostro nuovo vicino, imparare a conoscere e riconoscere le differenze e a valorizzarle rispettandoci. Molti terroristi sono ed erano giovani in cerca di riconoscimenti identitari … credo occorrerà lavorare nei prossimi anni nella scuola e con le famiglie per insegnare ai ragazzi come ridurre e risolvere i conflitti e come mettere a punto l’arte del negoziare.
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