Nel momento in cui un contribuente aliena un bene di sua proprietà, si originano due distinti presupposti impositivi: quelli per l’applicazione delle imposte proprie dell’atto di compravendita (imposte di registro, ipotecarie e catastali), normalmente a carico della parte acquirente, e quelli per l’applicazione delle imposte sul reddito derivante dalla plusvalenza generata dalla vendita stessa (quale differenza tra il costo d’acquisto ed il prezzo di vendita), a carico della parte alienante.
Non è affatto raro che, successivamente alla stipula e pur dopo avere versato le imposte per il tramite del Notaio rogante, l’Amministrazione finanziaria contesti alle parti di aver dichiarato nell’atto un prezzo inferiore rispetto al valore di mercato del bene, successivamente procedendo al ricalcolo delle imposte (di registro, ipotecarie e catastali) sulla base imponibile accertata pari, appunto, al valore di mercato. A questo punto, ai contribuenti non rimane che contestare il valore attribuito, ovvero aderirvi.
Orbene. Fino ad oggi è accaduto che a quanto sopra conseguiva (in maniera pressoché automatica) l’emissione dell’ulteriore avviso di accertamento, stavolta destinato alla sola parte alienante, con cui il Fisco contestava l’incasso di un prezzo effettivo (pari a quello accertato ai fini delle imposte di registro) superiore a quello indicato nel rogito, e dunque una plusvalenza maggiore rispetto a quella dichiarata, al fine di recuperare a tassazione la differenza tra la plusvalenza dichiarata e quella accertata, al contempo irrogando le relative sanzioni. L’accertamento si fonda(va), pertanto, sulla presunzione che il bene non poteva che essere stato venduto ad un prezzo almeno pari al suo valore di mercato (ed accertato dall’Ufficio nel precedente accertamento), a prescindere dal prezzo dichiarato nell’atto di compravendita.
Tale automatismo, benché avallato dalla giurisprudenza, era stato messo in discussione da recenti pronunce (cfr. sentenza Corte di Cassazione n. 24054/2014, Ctr Lombardia, sent. n. 140/2013) secondo cui i criteri per determinare la base imponibile ai fini delle imposte dirette e dell’imposta di registro sono diversi: ai fini Ires, la plusvalenza sarà determinata sempre dalla differenza tra il prezzo di acquisto e quello di cessione (i giudici ritengono inequivoco il significato del termine “corrispettivo” utilizzato dal legislatore che fa chiaramente comprendere la differenza rispetto al “valore venale” o al “valore di mercato”); ai fini dell’imposta di registro, per calcolare la plusvalenza si rimanda alla differenza tra il prezzo di acquisto ed il valore del mercato del bene (con relativa disputa sul valore venale).
Da oggi ciò non è più possibile. Il predetto art. 5 d.lgs. 147/2015, al comma 3, nel fornire interpretazione autentica degli artt. 58,68,85 e 86 tuir, stabilisce che “…per le cessioni di immobili…l’esistenza di un maggior corrispettivo non è presumibile soltanto sulla base del valore dichiarato, accertato o definito ai fini dell’imposta di registro…”.
Ciò implica che l’Agenzia delle Entrate non potrà più emettere avvisi di accertamento finalizzati al recupero delle imposte sui redditi solo sulla base della presunzione che il prezzo di vendita corrisponde puramente e semplicemente al valore ai fini dell’imposta di registro.
La norma in commento entrerà in vigore il 07/10/2015.
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