Rileggendo la legge regionale di riforma dell’ente intermedio siciliano emergono sempre più le incongruenze ivi contenute, alcune delle quali affette, come già affermato, da incostituzionalità. Un’anomalìa è certamente rappresentata dall’introduzione dello strumento referendario per l’adesione a un “libero Consorzio comunale” diverso da quello di provenienza e denominato dalla l.r. n. 9/86, “Provincia regionale”. La norma a regime prevede che i Comuni che intendono distaccarsi dal “libero Consorzio comunale” di provenienza debbono consultare le rispettive popolazione attraverso un referendum confermativo della volontà già espressa dal Consiglio comunale. Il legislatore regionale ha quindi sentito l’esigenza di coinvolgere le comunità locali interessate per una scelta che, evidentemente, ritiene fondamentale per il futuro del Comune, incidendo profondamente nella sfera di interessi costituzionalmente garantiti. Così facendo il legislatore sottende una valutazione politico-identitaria che non può non essere rimessa all’attenzione dei cittadini. E’ fin troppo evidente il significato che il legislatore affida anche al concetto di “popolazione” del futuro “libero Consorzio comunale”: non certo “funzionale”, come quello che tradizionalmente viene richiesto ad un ente non territoriale di governo qual’è quello consortile, bensì elemento “costitutivo” del processo identitario di una comunità locale richiesto ad un ente territoriale di governo dotato di copertura costituzionale.
Bene, ammesso che il legislatore siciliano, al di là del nomen iuris utilizzato (“liberi Consorzi comunali”), possa permettersi di istituire veri e propri enti territoriali di governo non previsti dall’art. 15 dello Statuto speciale ed anche in corso di espunzione dall’art. 114 della Costituzione, non può non rilevarsi l’incongruenza del modello referendario utilizzato dallo stesso allorquando non viene previsto tra le disposizioni un quorum minimo di partecipazione dei cittadini. E’ una contraddizione prevedere l’istituto referendario per dare spessore politico e sociale alla scelta e non prevedere, ai fini della validità del referendum, un quorum strutturale minimo. Sarebbe bastato mutuare quei requisiti già previsti dall’ordinamento siciliano per la variazione dei confini territoriali di un Comune. L’art. 8, comma 7, della l.r. n. 30/2000 prevede infatti che il referendum è valido solo se vota la metà più uno degli aventi diritto.
Invero, il legislatore siciliano con questa “disastrosa” riforma commette contestualmente due errori: il primo nell’avere impropriamente utilizzato il presìdio referendario per l’adesione ad un’ente formalmente non territoriale di governo; il secondo nel non avere reso funzionale l’espressione della volontà popolare inserendo nel procedimento referendario il quorum strutturale di partecipazione.
Orbene, se il referendum è uno strumento di raccordo tra il popolo e le istituzioni rappresentative, tanto che si rivolge sempre all’intero corpo elettorale, finalizzato ad avviare, influenzare o contrastare processi decisionali pubblici, sulla base di quali principi il legislatore siciliano può considerare rappresentativa di una comunità locale la scelta di poche migliaia di cittadini che hanno partecipato al referendum confermativo per aderire ad un nuovo “libero Consorzio comunale”?
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