di Massimo Greco
Negli Stati democratici il bilanciamento dei tre poteri (giudiziario, legislativo ed esecutivo) comporta un quotidiano e fisiologico attrito fra i medesimi. Vasta è la casistica registrata. Uno dei campi in cui in questo periodo si manifestano confronti accesi tra i Giudici e il Legislatore è quello delle modalità di accesso al pianeta Pubblica Amministrazione. Ci hanno insegnato che la regola per cui l’accesso all’impiego pubblico deve avvenire mediante concorso è un principio fondamentale dell’ordinamento italiano. Risale ad alcuni provvedimenti legislativi dell’inizio del secolo ed era già presente negli Stati pre-unitari. Il Costituente lo elevò a rango costituzionale con l’art. 97, terzo comma, Cost. che così recita: “Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge”. Per i cittadini che aspirano ad accedere al lavoro nella P.A., il concorso è, quindi, il metodo che dà maggiore garanzia di rispetto del principio di uguaglianza. Che le eventuali deroghe al concorso pubblico stabilite dal legislatore sono legittime solo in presenza di peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico idonee a giustificarle, dovendo essere funzionali alle esigenze di buon andamento dell’Amministrazione.
Ci hanno anche detto che nella P.A., per motivate esigenze organizzative, si può accedere anche mediante contratti a tempo determinato e che l’eventuale abuso da parte del datore di lavoro pubblico nel rinnovo di tali contratti non può comportare l’automatica trasformazione dei medesimi a tempo indeterminato. Ci hanno pure detto che questa materia è regolata anche da una specifica normativa europea che impone agli Stati membri di prevedere, in alternativa alla trasformazione del contratto a tempo indeterminato, il riconoscimento di un congruo risarcimento.
Ci hanno poi fatto sapere che tra i principi del nostro ordinamento si annovera anche quello dell’adeguato accesso dall’esterno nelle procedure concorsuali, valevole per tutte le tipologie di selezione, comprese quindi le “stabilizzazioni” di personale precario e che, pertanto, sono ammesse procedure selettive riservate al personale interno da stabilizzare in misura non superiore al 50%.
Ci hanno poi sottolineato che il pubblico concorso costituisce il metodo necessario e inderogabile anche per l’assunzione di personale scolastico, docente e non docente, in base al citato art. 97 della Costituzione.
Da tale contesto normativo, solo apparentemente chiaro ed univoco, evinciamo i motivi principali che stanno alla base delle mancate stabilizzazioni del personale precario ex l.s.u. ancora in servizio presso gli Enti pubblici della Sicilia. Gli altri motivi, non affatto secondari, sono di carattere finanziario.
Bene, non riusciamo però a darci una risposta plausibile in ordine al recentissimo piano straordinario di assunzioni varato dal Parlamento nel mondo della scuola. Al netto di quei docenti (una minoranza) che hanno espletato l’ultimo concorso pubblico del 2012 e che risultano utilmente inseriti in una graduatoria ancora vigente, la maggioranza dei 100 mila docenti chiamati in questi giorni alla sottoscrizione di una contratto a tempo indeterminato si riferisce a docenti che non hanno mai fatto alcun concorso pubblico per entrare nell’organico delle scuole, essendo solamente dotati di abilitazione all’esercizio dell’insegnamento scolastico e quindi inseriti nella più nota graduatoria ad esaurimento (GAE).
Ci piacerebbe sapere se per il Premier Renzi esistono precari nella P.A. alla stregua delle squadre di calcio, notoriamente classificati, per serie “A”, “B”, “C” ecc.. Se così è, ci faccia sapere a quale serie appartengono i 20 mila precari degli Enti locali siciliani per i quali il rispettivo datore di lavoro pubblico abusa da più di venti anni dell’istituto del rinnovo, senza alcuna previsione né di trasformazione a tempo indeterminato né di riconoscimento di danni.
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