- i nuovi modelli di business all’interno della economia digitale;
- la necessità o meno di aggiornare la definizione di stabile organizzazione per far fronte a tale nuovo fenomeno. Possibilità di una società di avere “una significativa presenza digitale” nell’economia di un’altra nazione senza essere assoggettata a tassazione in tale Stato a causa della mancanza di un criterio di collegamento con tale territorio in base alle attuali regole di diritto tributario internazionale;
- individuazione, valorizzazione e qualificazione del reddito scaturente dai nuovi modelli di business;
- possibilità di attribuire valore alle informazioni veicolate sugli utenti e loro abitudini generate attraverso l’utilizzo di prodotti e servizi digitali;
- individuazione della fonte del reddito derivante dallo svolgimento di tali nuove forme di business;
- corretta applicazione dell’imposte sui consumi (VAT/GST) in relazione alle forniture di beni e servizi in ambito internazionale
A questo documento seguiranno entro la fine del 2015 l’emanazione delle linee guida vere e proprie che dovrebbero individuare i correttivi o gli adeguamenti che gli Stati dovrebbero implementare per riuscire a tassare in modo corretto tutte quelle attività economiche che operano sul web attraverso piattaforme di e-commerce ovvero attraverso l’utilizzo e la commercializzazione di dati acquisti dal Web.
Una delle principali difficoltà che le attuali normative fiscali incontrano nel garantire la corretta localizzazione dei redditi prodotti all’interno delle nuove forme di business è sostanzialmente legata al fatto che le nuove tecnologie danno agli operatori di mercato la possibilità di limitare ovvero, addirittura, annullare la propria presenza fisica all’interno del mercato di riferimento [1].
Peraltro, qualora la presenza fisica si renda necessaria, quest’ultima viene limitata a quelle sole attività che, dal punto di vista normativo attuale, non possono essere ritenute idonee ad individuare nello Stato di destinazione una stabile organizzazione in quanto meramente preparatorie ovvero ausiliarie [2].
Una delle possibili soluzioni, pertanto, evidenziate dal gruppo di esperti è stata proprio quella di modificare le attuali norme in tema di esenzioni circa la sussistenza di una stabile organizzazione eliminando, in parte o totalmente, i casi normativamente previsti in cui, nonostante la presenza fisica, non si possa configurare la sussistenza di una stabile organizzazione in quanto le attività ivi svolte non sono tali da far ritenere sussistente un significativo collegamento con il territorio.
Nel caso, invece, in cui la presenza fisica dell’impresa difetti completamente, in quanto si è in presenza di una attività completamente dematerializzata, la possibile soluzione analizzata dal gruppo di esperti è stata quella della creazione di un nuovo criterio di collegamento che sia in grado di sostituirsi ovvero di aggiungersi alla presenza fisica attualmente indispensabile al fine della configurazione di una stabile organizzazione c.d. materiale. A tale proposito si è, dunque, coniata la definizione di “presenza digitale”. In particolare si è ritenuto che, allorquando tale presenza si estende in maniera tale da divenire “significativa” all’interno di uno Stato, si possa ritenere allora sussistente una stabile organizzazione in tale territorio dell’impresa estera anche in assenza di una adeguata presenza fisica. In breve al concetto di stabile organizzazione materiale verrebbe affiancato quello di “stabile organizzazione virtuale”.
Se però la presenza digitale può essere, più o meno facilmente, ritenuta sussistente qualora si accerti che contenuti digitali di una impresa (sito Internet, informazioni, beni o servizi) siano accessibili ad un utente localizzato in uno Stato diverso da quello in cui l’impresa stessa risiede fiscalmente, maggiori sono le difficoltà connesse alla corretta quantificazione di tale presenza ed, in particolare, all’individuazione del momento in cui la presenza digitale di una impresa sia tale da potersi considerare “significativa”.
Sul punto, tra le diverse soluzioni ipotizzate a livello OCSE vi sono:
- l’individuazione di un significativo numero di contratti siglati con utenti residenti fiscalmente nello Stato di destinazione in merito alla fornitura di beni o servizi digitali;
- l’utilizzazione dei beni o servizi forniti dall’impresa prevalentemente all’interno di altro Stato rispetto a quello in cui l’impresa risiede fiscalmente;
- significativo ammontare dei pagamenti in favore dell’impresa da parte di consumatori presenti in altro Stato rispetto a quello in cui l’impresa risiede fiscalmente;
- presenza all’interno dello Stato di destinazione di una struttura connessa con l’impresa estera che, sebbene non sia tale da configurare una presenza fisica qualificata ai fini della sussistenza della tradizionale stabile organizzazione, svolga essenzialmente attività di promozione dei beni forniti da quest’ultima;
- la raccolta regolare e sistematica da parte dell’impresa estera di dati relativi ad utenti fiscalmente residenti nell’altro Stato.
Vale la pena osservare, comunque, che, al di là delle difficoltà pratiche in ordine all’individuazione della c.d. stabile organizzazione virtuale, l’introduzione del nuovo concetto di presenza digitale rischia di alterare i delicati equilibri che nel tempo si sono lentamente creati nella ripartizione del reddito d’impresa tra Stato fonte e Stato di residenza.
È innegabile, infatti, che il predetto concetto finisca per spostare l’ago della bilancia in favore dello Stato di destinazione con un non indifferente rischio di sovrapposizione con i criteri che regolamentano il luogo di tassazione in ordine all’imposte indirette [3].
In ultimo, di non poco momento, è anche la successiva modalità di imputazione alla stabile organizzazione così individuata della corretta parte di reddito complessivamente prodotto dall’impresa [4].
Nuova regola per tassare redditi di impresa e royalities
Una ulteriore soluzione proposta dal documento OCSE emanato a settembre 2014 (Addressing The Challenges of the digital Economy), di cui abbiamo parlato in precedenza [5], per far fronte alle nuove modalità di business ed alla conseguente possibilità di mantenere una sostanziale attività economica all’interno di uno Stato senza avere in esso una significativa presenza fisica che dia luogo ad una stabile organizzazione, al fine di permettere una equa ripartizione del potere impositivo tra gli Stati coinvolti nella transazione commerciale, è quella di introdurre una ritenuta alla fonte sui pagamenti fatti dai residenti di uno Stato per la fornitura di beni o servizi digitali da parte di una impresa residente fiscalmente in altro Stato.
Una tale ipotesi, in realtà, era già stata avanzata in precedenza attraverso la qualificazione dei pagamenti effettuati in corrispettivo dei beni o servizi digitali quali royalties [6]. Tale qualificazione, infatti, comporterebbe la possibilità per lo Stato fonte di applicare una ritenuta sulle transazioni intervenute attraverso la rete.
La puntuale posizione espressa dall’OCSE all’interno del commentario all’art. 12 del Modello di Convenzione rende però difficile nella maggior parte dei casi la qualificazione di tali pagamenti come royalties e non come redditi d’impresa che a livello convenzionale sono soggetti a tassazione nel solo Stato di residenza dell’impresa a meno che l’impresa estera non abbia una stabile organizzazione nello Stato di destinazione.
È innegabile che gran parte dei beni digitali che formano oggetto di transazioni telematiche altro non sono che beni protetti dal diritto d’autore, ma al fine della caratterizzazione dei pagamenti effettuati per il loro utilizzo è necessario verificare se gli stessi vengono corrisposti per la mera cessione di tali prodotti o invece per l’uso o la concessione in uso dei beni immateriali in essi contenuti [7].
Sul punto il paragrafo 8.2. del Commentario all’art. 12 del Modello OCSE è chiaro nello stabilire che qualora un pagamento rappresenti il corrispettivo per il trasferimento della proprietà piena di un diritto rientrante nella definizione di royalties, lo stesso non potrà essere considerato quale corrispettivo per l’uso od il diritto d’uso e pertanto non potrà costituire una royalty, essendo a tal fine irrilevante le modalità attraverso cui il pagamento viene effettuato (in una unica soluzione o in modalità frazionata).
In breve a livello convenzionale, affinché un pagamento possa essere qualificato come royalty, è necessario che lo stesso venga corrisposto non per l’acquisizione piena del bene in cui il diritto immateriale è incorporato ma per l’acquisizione del diritto alla riproduzione del bene stesso a fini commerciali e non esclusivamente per finalità connesse all’utilizzo del bene stesso ovvero alla creazione di una copia di riserva [8].
Ne deriva, che, nell’ambito dell’economia digitale, essendo nella maggior parte dei casi il bene acquisito per la diretta utilizzazione da parte dell’utente finale, i casi in cui il relativo corrispettivo possa essere qualificato come royalty appare alquanto limitato.
La possibile introduzione di una ritenuta sui pagamenti effettuati a fronte dell’utilizzo di prodotti o servizi digitali, comunque, potrebbe essere attuata attraverso una specifica norma che permetta allo Stato in cui i consumatori sono fiscalmente residenti di applicare tale ritenuta nel caso in cui non vi siano le condizioni per individuare, sulla base dei normali canoni interpretativi, la sussistenza di una stabile organizzazione dell’impresa estera sul proprio territorio.
Naturalmente, in tal caso, una delle maggiori difficoltà connesse a tale scelta, al di là della rispondenza di questa ai principi dapprima elencati che dovrebbero guidare il legislatore nella scelta delle possibili soluzioni, sarebbe quella, invero difficilmente praticabile, di gravare i consumatori dell’onere del versamento di tale ritenuta. Una possibile soluzione avanzata dal gruppo di studio potrebbe però essere in tal caso l’accollo di tale onere in capo agli istituti finanziari incaricati di gestire i pagamenti stessi.
Al di là dei problemi pratici in ordine alle modalità di attuazione, l’introduzione di una specifica ritenuta sulle transazioni digitali, comporta, come si è osservato, non pochi dubbi in ordine al carattere neutrale di tale scelta. Infatti, la connaturale applicazione di una ritenuta sul reddito lordo rischierebbe di gravare le imprese fornitrici di prodotti e servizi digitali di una tassazione sul reddito maggiore rispetto a quella cui sono poste le imprese che operano nel commercio tradizionale e che, come normalmente avviene, sono tassate nello Stato di destinazione solo sulla base del reddito netto direttamente imputabile alla propria stabile organizzazione ivi presente.
[1] Si pensi al c.d. commercio diretto, dove, essendo sostanzialmente del tutto immateriali i beni o servizi resi, tutte le operazioni strettamente connesse allo svolgimento dell’attività commerciale (accettazione degli ordinativi, pagamento, consegna del bene o prestazione del servizio) sono svolte essenzialmente in rete senza che vi sia bisogno di alcuna presenza fisica.
[2] Una sede fissa non si può configurare come stabile organizzazione, secondo le indicazioni dell’art. 162, comma 4, TUIR e dell’art. 5, paragrafo 4, del Modello di Convenzione OCSE, qualora le attività dalla stessa svolte, in considerazione dell’attività propria svolta dalla società estera, siano qualificabili quali attività preparatorie ovvero ausiliarie di quest’ultima.
[3] Si pensi ad esempio alla imposizione ai fini IVA dove il potere impositivo è essenzialmente posto in favore del Paese in cui viene resa la prestazione.
[4] Si pensi in particolare alla non semplice suddivisione dei costi che generalmente le aziende impegnate nell’economia digitale generano nella loro fase di start-up.
[5] Vedi paragrafo 3.22
[6] Cfr. Treaty Characterisation Issues Arising from E-Commerce, 2001, OCSE.
[7] Cfr. C. Sallustio, Commercio elettronico diretto e imposizione sui redditi. Beni digitali, beni immateriali e dematerializzazione dell’attività d’impresa, Ariccia, 2012, p. 209 e ss.
[8] Cfr. art. 12 Commentario Modello OCSE, paragrafi 17.1. e ss.
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