La Legge n. 40 del 19 febbraio 2004 (“Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”).
Il Decreto del Ministero della Salute no 31639 dell’11 aprile 2008.
La Convenzione del Consiglio d’Europa sui Diritti dell’Uomo e la biomedicina (“Convenzione di Oviedo”) del 4 aprile 1997.
Il documento di base sulla diagnosi preimpianto e prenatale pubblicato dal Comitato direttivo per la bioetica (CDBI) del Consiglio d’Europa il 22 novembre 2010 (CDBI/INF (2010).
Di recente con la sentenza n. 96/2015 depositata il 14 maggio la Corte Costituzionale ha dichiarato l’ illegittimità costituzionale degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nella parte in cui non si ammette il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza), accertate da apposite strutture pubbliche.
In particolare, i giudici decidevano in seguito al ricorso promosso dal Tribunale Ordinario di Roma dinanzi al quale si erano costituiti due coppie di coniugi e l’ Associazione per la libertà di ricerca scientifica.
I primi chiedevano di essere ammessi a procedure di procreazione medicalmente assistita, con diagnosi preimpianto, al fine di evitare il rischio di trasmettere, ai figli, la malattia genetica da cui, in entrambi i casi, uno dei componenti della coppia era risultato affetto in occasione di precedente gravidanza spontanea, interrotta con aborto terapeutico.
Il giudici di merito, sollevarono la questione di legittimità costituzionale dei predetti artt. 1, commi 1 e 2, e 4 della legge n. 40 del 2004, per contrasto con gli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione, oltre che con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 della CEDU.
I giudici della Corte Costituzionale ribadirono che: “la normativa censurata, non consentendo l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita anche alle coppie (come quelle innanzi a sé ricorrenti) che, pur non sterili od infertili, rischierebbero, comunque, di procreare figli affetti da gravi malattie genetiche trasmissibili, di cui uno od entrambi i componenti della stessa risultano portatori, contrasterebbero con:
‒ con l’art. 2 Cost., quali «il diritto della coppia a un figlio “sano” e il diritto di autodeterminazione nelle scelte procreative »;
‒ con l’art. 3 Cost., «inteso come principio di ragionevolezza, quale corollario del principio di uguaglianza, in quanto comporta la conseguenza paradossale, irragionevole e incoerente di costringere queste coppie, desiderose di avere un figlio non affetto dalla patologia, di cui ben conoscono gli effetti, di avere una gravidanza naturale e ricorrere alla scelta tragica dell’aborto terapeutico del feto, consentita dalla legge 22 maggio 1978, n. 194»;
‒ con lo stesso art. 3 Cost., sul presupposto che il suddetto divieto determinerebbe una discriminazione tra la condizione delle coppie fertili, portatrici di malattie genetiche trasmissibili, e quella delle coppie in cui l’uomo risulti affetto da malattie virali contagiose per via sessuale, alle quali è, invece, riconosciuto, dal decreto del Ministero della salute 11 aprile 2008 (Linee guida in materia di procreazione medicalmente assistita), il diritto di ricorrere alle tecniche di PMA;
‒ con l’art. 32 Cost., risultando leso il diritto alla salute della donna, sotto il profilo che la stessa, nell’esercitare la scelta di procreare un figlio non affetto da una patologia trasmissibile ereditariamente, sarebbe costretta a dover affrontare una gravidanza naturale per poi dover, eventualmente, ricorrere ad un aborto terapeutico (nel caso di accertata trasmissione della malattia genetica), con la configurazione di un concreto aumento dei rischi per la sua salute fisica e per la sua integrità psichica, «in assenza di un adeguato bilanciamento della tutela della salute della donna con quella dell’embrione»;
‒ con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione alle norme interposte di cui agli artt. 8 (sul diritto al rispetto della vita familiare) e 14 (sul divieto di discriminazione) della CEDU: quanto alla prima, perché la “irragionevolezza” del divieto di accesso alla PMA imposto alle coppie sterili portatrici di malattie ereditarie, «che di fatto si risolve nell’incoraggiamento del ricorso all’aborto del feto», comporterebbe, appunto, una indebita ingerenza nella vita familiare di dette coppie; e, quanto alla seconda, in ragione della discriminazione già evidenziata per il profilo di violazione dell’art. 3 Cost.
Aggiunge anche: «Il ricorso alla procreazione medicalmente assistita è consentito, qualora non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità»; «Il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è consentito solo quando sia accertata l’impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione ed è comunque circoscritto ai casi di sterilità o di infertilità inspiegate documentate da atto medico nonché ai casi di sterilità o di infertilità da causa accertata e certificata da atto medico».
Una sentenza che riconosce a molte giovani coppie un diritto fino adesso negato dal legislatore italiano che li aveva visti emigrare all’ estero.
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