L’istituzione del ruolo unico della dirigenza pubblica “di ruolo” distinta in dirigenza statale, regionale e degli enti locali, comporterà l’inserimento dei dirigenti nell’unico calderone di settore e l’appiattimento delle loro posizioni dando così alle amministrazioni interessate la possibilità di attingere dallo stesso, a seguito di una procedura ancora da definire nei dettagli, per la scelta dei dirigenti da incaricare. Nello stesso tempo è prevista la possibilità per le amministrazioni pubbliche di conferire gli incarichi dirigenziali a personale non di ruolo pur nel limite di una contenuta percentuale.
Per i segretari comunali e provinciali è stata addirittura prevista l’abolizione della figura con la conseguente attribuzione delle corrispondenti funzioni ad una figura di nuova creazione “il dirigente apicale” con compiti di attuazione dell’indirizzo politico amministrativo, che non dovrà necessariamente coincidere, fatta eccezione per un ristretto periodo temporale non superiore a tre anni dal decreto legislativo di attuazione della delega, con il personale già appartenente alla carriera della soppressa figura. Ciò comporterà la possibilità per le amministrazioni pubbliche di scegliere i propri dirigenti, compresi quelli che non hanno compiti di attuazione dell’indirizzo politico amministrativo, dal ruolo unico e dunque anche tra coloro già appartenenti al ruolo dei segretari degli enti locali.
Sull’argomento si sono subito registrate le proteste dei dirigenti pubblici e dei segretari degli enti locali in particolare, i quali hanno letto nel disegno di legge l’affermazione del principio di licenziabilità dei dirigenti pubblici attraverso il meccanismo della cancellazione dal ruolo unico decorso un periodo temporale, ancora da stabilire, senza che sia intervenuto l’incarico ad opera del vertice politico delle amministrazioni pubbliche.
Una vera dirompente riforma dunque che potrebbe mandare a casa centinaia di dirigenti pubblici colpevoli solo del fatto di non essere stati scelti dai vertici politici pur senza alcuna plausibile giustificazione.
Le argomentazioni a favore della riforma portate avanti dal Governo non rendono ragione ad un sistema che, nell’ottica di un cambiamento da effettuare a tutti i costi per salvare l’immagine dell’Italia di fronte all’Europa, non si cura nemmeno di comprovare il rispetto dei principi cardine sui quali poggia l’intero impianto costituzionale vigente, che ha il suo fondamento negli articoli 97 e 98 della Costituzione repubblicana. L’enunciazione dei principi di buon andamento e imparzialità delle amministrazioni pubbliche nonché quello che i pubblici impiegati sono ad esclusivo servizio della nazione, cede così il passo ad altri valori che non trovano riscontro nella Carta fondamentale italiana e che si conciliano semmai con altri sistemi organizzativi basati su modelli di governance aventi il loro fulcro nel ruolo centrale assunto dal vertice politico.
Se dunque l’Italia adotta un nuovo modello di governance a costituzione invariata, appare ovvia la scissione tra il dato di fatto, voluto dai rappresentanti politici senza peraltro tenere conto delle esigenze provenienti dalla base elettorale, e quello di diritto che esprime la radice profondamente democratica e partecipativa delle sue istituzioni.
Secondo le dichiarazioni del Governo si volta pagina, in realtà però non si comprende quale coerenza possa esservi tra il convulso andare avanti del Premier e il sistema politico basato ancora sulla rappresentanza democratica.
A ciò va aggiunto che la trasformazione dei contratti di lavoro a tempo indeterminato dei dirigenti pubblici in incarichi a termine non facilita la lettura della riforma ma conferma la sensazione che essa si basi più sul sentimento estemporaneo di chi ha assunto il potere senza alcuna reale democratica investitura che non su una coerente e sistematica logica ordinamentale. I rischi di incostituzionalità sono allora alle porte.
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