Ogni cittadino italiano ha il diritto (e per alcuni aspetti il dovere) di esercitare funzioni pubbliche, anche al fine di assicurare la propria fedeltà alla Repubblica. La Costituzione non richiede al cittadino particolari requisiti per esercitare funzioni pubbliche, ma si limita a prescrivere il concorso pubblico per accedere agli uffici pubblici. Mentre per le funzioni pubbliche derivanti da una carica elettiva nulla è richiesto se non il possesso di requisiti essenziali (cittadinanza italiana, maggiore età, ecc…). Questo significa che quel sistema meritocratico, sotteso alla selezione aperta a tutti per accedere nella Pubblica Amministrazione, è necessario per esercitare solo un tipo di funzione pubblica, cioè quella che non richiede valutazioni di ordine politico. Per le cariche elettive, evidentemente, lo strumento di selezione di coloro che si candidano all’esercizio di funzioni pubbliche di tipo politico è rappresentato dal solo consenso elettorale.
Siamo quindi in presenza, al netto delle ipotesi di nomina diretta o di cooptazione, di un dato esclusivamente oggettivo e privo di valutazioni di merito sulle qualità etiche e professionali della persona. Ora, se è vero, e ragionevole, che in un sistema democratico è impossibile comprimere, attraverso l’introduzione di meccanismi selettivi diversi dalle leggi elettorali, il diritto costituzionale di elettorato passivo riconosciuto ad ogni cittadino, è altrettanto vero che alle cariche elettive di tutti i livelli istituzionali (Parlamento, Regioni ed Enti locali) accedono cittadini che, ancorchè dotati di indubbia investitura popolare, presentano vistose difficoltà nell’esercizio delle funzioni pubbliche loro affidate. Gli esempi sono talmente tanti e di comune opinione che non meritano di essere qui ripresi, basti solamente pensare che nella sola Regione Siciliana non passa giorno senza leggere sentenze emesse da tutte le giurisdizioni (amministrativa, civile, penale e contabile) di condanna dell’operato dell’Amministrazione regionale. A questo punto viene da chiedersi se le periodiche elezioni per il rinnovo degli organi di governo dei diversi livelli istituzionali sono bastevoli per elevare il livello qualitativo della classe politica.
Anche alla luce delle flotte di candidati che concorrono in questi giorni per dividersi i “posti a sedere” dei consigli comunali, temiamo che la risposta sia negativa. Al netto di alcuni consiglieri comunali uscenti formatisi sul campo, la maggior parte dei candidati non possiede alcuna nozione annoverabile nel concetto di “bene comune”. Nessuno pretende che i consiglieri comunali debbano conoscere a memoria la Costituzione piuttosto che le teorie politiche di Hobbes, di Kant, di Locke, di Rousseau, di Marx, di Montesquieu, ma aspettarsi che i medesimi sappiano esercitare la funzione pubblica per la quale sono stati eletti, in una cornice valoriale e professionale di media entità è anch’esso un diritto del cittadino.
A questo punto la palla ripassa nelle mani dei cittadini elettori, chiamati a scegliere, col proprio voto, in tempi di disaffezione politica, il meglio o il meno peggio. In tale contesto, gli elettori irresponsabili dovrebbero astenersi piuttosto che votare male. Votare, mentre è certamente un diritto, non è affatto un dovere. Se si decide liberamente di votare, bisogna farlo dimostrando di essere consapevoli, razionali, privi di pregiudizi, retti ed adeguatamente informati circa i propri convincimenti politici. Quanti ancora oggi lo sono?
Orbene, diffusi, soprattutto nel meridione assistito, sono i casi di “voto strappato” e questo risultato non configura altro che un’attività dannosa non solo per se stessi ma per l’intera collettività. Votare male è infatti un serio problema collettivo, non diverso dall’inquinamento atmosferico. Chi brucia plastica nel proprio terreno produce danni inevitabilmente anche agli altri che, civicamente, preferiscono invece smaltire i propri rifiuti con la tecnica della raccolta differenziata. Allo stesso modo chi vota male perché distratto, ovvero perché obbligato (spesso suo malgrado), non si rende conto di danneggiare gli altri, costretti a risentire delle scelte sbagliate altrui nella selezione della rappresentanza politica e di governo.
Ceteris paribus, dovremmo tutti condividere il costo del non inquinare. La riduzione dell’inquinamento elettorale è un obiettivo più avanzato rispetto all’elementare partecipazione opportunamente invocata da Gaber. Gli obblighi che oggi contraiamo gli uni con gli altri in virtù del nostro “stare assieme” non si concretano solamente in un “dovere di votare” ma anche nell’obbligo civico di “non votare male”. Ci sono molti modi per esprimere le proprie “virtù civiche”. L’esercizio del voto è uno fra tanti ma i riflessi che questo ha sulla collettività impongono una certa diligenza che, in tempi di antipolitica, andrebbe maggiormente soppesata. Meditate cittadini, meditate!
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