Invece, è stata approvata una proroga sino al 30 settembre 2015, con la speranza che questo termine sia effettivamente rispettato .
La delega fiscale contiene una serie di principi importanti per riformare totalmente il Fisco italiano. In particolare, l’art. 10 prevede la riforma del processo tributario, con i seguenti principi e criteri direttivi:
– terzietà dell’organo giudicante;
– rafforzamento della tutela giurisdizionale del contribuente;
– rafforzamento e razionalizzazione dell’istituto della conciliazione nel processo tributario;
– eventuale composizione monocratica dell’organo giudicante in relazione a controversie di modica entità;
– rafforzamento della qualificazione professionale dei giudici tributari, al fine di assicurarne l’adeguata preparazione specialistica;
– criteri di determinazione del trattamento economico spettante ai giudici tributari;
– l’uniformazione e generalizzazione degli strumenti di tutela cautelare nel processo tributario;
– la previsione dell’immediata esecutorietà, estesa a tutte le parti in causa, delle sentenze delle Commissioni tributarie;
– l’individuazione di criteri di maggior rigore nell’applicazione del principio della soccombenza ai fini del carico delle spese di giudizio.
A tal proposito, ho predisposto un progetto di legge di riforma del processo tributario, condiviso da UNAGRACO Nazionale, consultabile sul mio sito www.studiotributariovillani.it ed attualmente in discussione in Parlamento, che concretizza in norme processuali i suddetti principi, avendo come unico scopo la perfetta parità delle parti in giudizio nonché l’effettivo esercizio del diritto di difesa senza alcuna limitazione, in ossequio al principio costituzionale dell’art. 24.
Per avere una giustizia tributaria veramente efficiente è, soprattutto, necessario che la gestione della stessa sia sottratta al Ministero dell’Economia e delle Finanze e sia affidata al Ministero della Giustizia, per evitare che ci siano limiti difensivi che attualmente pregiudicano il corretto esercizio del diritto di difesa.
I giudici tributari devono essere a tempo pieno e professionalmente qualificati, riconoscendo loro un dignitoso compenso per la delicata funzione giurisdizionale che svolgono.
Nella fase istruttoria non ci devono essere limiti difensivi, nel senso che bisogna riconoscere la possibilità di citare testimoni e deferire giuramenti.
Oggi, invece, assistiamo ad un evidente ed incostituzionale squilibrio processuale tra le parti, soprattutto nella fase istruttoria.
A tal proposito, a puro titolo esemplificativo, basta leggere quanto scritto nella sentenza n. 5931 del 25 marzo 2015 della Corte di Cassazione – Sez. Tributaria:
“Va osservato, infatti, che le dichiarazioni rese in sede di verifica dal legale rappresentante di una società possono, anche da sole, fondare l’accertamento di un maggiore imponibile ai fini dell’iva e delle imposte dirette. Tali dichiarazioni non rivestono, invero, la natura di mere dichiarazioni testimoniali, in quanto il rapporto di immedesimazione organica che lega il rappresentate legale alla società rappresentata esclude che il primo possa essere qualificato come testimone, in riferimento ad attività poste in essere dalla seconda; esse possono, invece, essere apprezzate come una confessione stragiudiziale, e costituiscono pertanto prova non già indiziaria, ma diretta, del maggior imponibile eventualmente accertato nei confronti della società, non abbisognevole , come tale, di ulteriori riscontri (Cass. n. 23816/05; n. 12271/07; n. 22122/10)”.
Inoltre, nella stessa sentenza si legge quanto segue:
“Ed invero, le dichiarazioni che gli organi dell’Amministrazione finanziaria sono autorizzati a richiedere anche ai privati nella fase amministrativa di accertamento – non potendo essere ricomprese nel divieto di prova testimoniale di cui all’art. 7 D.Lgs. n. 546/92, che si riferisce alla sola prova testimoniale, quale prova da assumere con le garanzie del contraddittorio – proprio perché assunte in sede extraprocessuale, rilevano quali elementi indiziari che possono concorrere a formare, unitamente ad altri elementi, il convincimento del giudicante (Cass. n. 8369/13)”.
In sostanza, secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, nel processo tributario le dichiarazioni del terzo, acquisite dalla polizia tributaria o da funzionari accertatori dell’Agenzia delle Entrate in corso di un’ispezione e trasfuse nel processo verbale di constatazione, a sua volta recepito dall’avviso di accertamento, hanno almeno, in via di principio, un valore meramente indiziario, concorrendo a formare il convincimento del giudice, qualora confortate anche da altri elementi di prova.
Tuttavia, tali dichiarazioni del terzo possono, nel concorso di particolari circostanze e, in specie, quando abbiano valore confessorio, integrare non un mero indizio, ma una prova presuntiva, ai sensi dell’art. 2729 del codice civile, idonea da sola ad essere posta a fondamento e motivazione dell’avviso di accertamento in rettifica (in tal senso, Cassazione, Sez. Tributaria, sentenza n. 27314 del 23/12/2014).
In una situazione processuale del genere, è chiaro che il difensore del contribuente si trova in una situazione di svantaggio nei confronti del fisco, sia perché non può citare direttamente i terzi che hanno fatto determinate dichiarazioni sia perché non può citare testi a suo vantaggio che possano contrastare le dichiarazioni di terzi, come avviene in tutti gli altri processi.
Oltretutto, la possibilità di poter ascoltare i testimoni nel giudizio tributario rende sereni gli stessi giudici che possono valutare, seriamente e concretamente, i fatti così come si sono svolti, senza il rischio di un travisamento degli stessi fatti, che peraltro potrebbe determinare una responsabilità civile in base alla recente normativa.
Gli stessi problemi, per esempio, si pongono anche nella particolare ipotesi della presunta distribuzione di utili in caso di accertamento di una società a ristretta base azionaria.
Infatti, la Corte di Cassazione, nell’ipotesi di cui sopra, ha stabilito i seguenti principi:
– nel caso di società di capitali a ristretta base partecipativa, è legittima la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati, rimanendo salva la facoltà del contribuente di offrire la prova del fatto che i maggiori ricavi non sono stati distribuiti, ma accantonati dalla compagine sociale ovvero da essa reinvestiti (Cassazione, ordinanza n. 2090 del 05/02/2015 – Sez. Sesta della Sez. Tributaria);
– nel caso di società a ristretta base sociale, è ammissibile la presunzione di distribuzione ai soci degli utili non contabilizzati, la quale non viola il divieto di presunzione di secondo grado, poiché il fatto noto non è costituito dalla sussistenza dei maggiori redditi ma dalla ristrettezza della base sociale e dal vincolo di solidarietà e reciproco controllo dei soci (Cassazione, Sez. Tributaria, sentenza n. 5369 del 07/03/2014).
Anche in questo caso, il difensore del contribuente si trova in difficoltà perché non può citare testimoni che potrebbero, per esempio, dichiarare ai giudici tributari che i soci non andavano d’accordo tra di loro perché vi erano gravi contrasti, anche di natura personale, che non potevano assolutamente giustificare un’eventuale distribuzione degli utili in nero, di cui peraltro potevano non saperne niente anche perché non partecipavano effettivamente all’attività economica e sociale della società.
In definitiva, ancora una volta, come più volte ho scritto, è importate combattere l’evasione fiscale, con gli strumenti che il fisco già possiede e che soprattutto negli ultimi anni sono stati fortemente potenziati, ma è altrettanto giusto non limitare il diritto di difesa, consentendo al contribuente ed al suo difensore la possibilità di poter contrastare le tesi accusatorie senza alcuna limitazione davanti ad un giudice terzo ed imparziale, così finalmente rispettando i principi degli articoli 24 e 111 della Costituzione.
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